1. Premessa. La recente vicenda del consigliere comunale di Trieste Ugo Rossi propone numerose nuove questioni di rilievo al giurista di notevole significato tecnico e politico. In effetti, nel momento in cui il consigliere viene imputato di resistenza a pubblico ufficiale proprio mentre sta inscenando una protesta non violenta, rivolta nei confronti di una legge ritenuta non solo ingiusta, ma tecnicamente illegittima, anzi, come vedremo, molto probabilmente addirittura nulla, o comunque tale da lui considerata, impone una revisione complessiva dell’intera problematica, tanto con riferimento al tema della imperatività della legge, sia in generale, sia con particolare riferimento al caso della sua invalidità, quanto all’inquadramento della questione della disobbedienza civile nel nostro ordinamento costituzionale.
Le due questioni, combinate insieme, focalizzano altresì un’altra coppia di temi: quello della collocazione dei diritti umani e fondamentali nella gerarchia delle fonti; e quello relativo all’ipotesi di configurare, anche la luce del principio di disapplicazione delle leggi in contrasto con il diritto eurounitario, un vero e proprio sindacato diffuso delle leggi illegittime, e non più solo accentrato, avvicinando il nostro modello, e in genere il modello europeo, a quello classico di common law. E proprio mentre il governo rivendica l’esercizio di poteri straordinari ed eccezionali, al contempo si viene ad affermare una visione, in nome della quale il rapporto cittadino/governo o cittadino/Stato finisce con il mostrarsi, in un certo senso paradossalmente, un rapporto non più solo tra supremazia e soggezione, ma anche, per versi non secondari, un rapporto tra equiordinati, in quanto entrambi rivendicano il proprio essere fonte primaria e non subordinata del diritto.
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2. L’episodio e le sue implicazioni giuridiche. Il consigliere comunale di Trieste Ugo Rossi è noto per avere ingaggiato, dal suo ruolo istituzionale, in questa fase ancora emergenziale, un’iniziativa pubblica, consistente anche in atti di disobbedienza, contro il cosiddetto “green pass”, denunciandone quella che ritiene la radicale invalidità giuridica, in quanto da lui reputato lesivo dei valori fondamentali dell’ordinamento e dei diritti primari dei cittadini, in particolare di quelli che hanno scelto di non assumere i vaccini indicati per il SarsCoV2.
Nell’ambito di tali iniziative, il consigliere Rossi ha dato vita, in data 4 febbraio 2022, a una aperta e non clandestina disobbedienza civile e politica, entrando, senza esibire il green pass, nella V Commissione Consiliare del Comune di Trieste, rispondendo “presente” all’appello del Segretario di Commissione all’inizio dei lavori e firmando il registro presenze, assumendo così le vesti di pubblico ufficiale nel pieno dell’esercizio delle sue funzioni politiche ed esercente il pubblico servizio.
Nel corso dello svolgimento dei lavori della Commissione, agenti della squadra speciale della polizia municipale hanno bloccato con violenza il consigliere, per poi denunciarlo per “resistenza a un pubblico ufficiale” ai sensi dell’art. 337 c.p., ma ciò pone già un primo significativo problema di carattere giuridico, dato che anche il consigliere Rossi era in quel preciso momento un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni, le quali, si potrebbe ben sostenere, ricomprendono anche il suo diritto a esercitare una denuncia attiva di quella che ritiene un’illegalità costituzionale, stante il suo dovere di fedeltà alla Costituzione ai sensi dell’art. 54 Cost., e non a una “legge” purchessia, ossia pur quando questa sia da lui legittimamente reputata radicalmente invalida: in altri termini, si potrebbe ragionevolmente sostenere che siano stati i poliziotti a opporre una “resistenza a un pubblico ufficiale” nei suoi confronti, e non il contrario.
Dalla denuncia nei confronti del consigliere per “resistenza”, è scaturita l’ordinanza cautelare del GIP di Trieste, che ha disposto nei suoi confronti gli arresti domiciliari; per conseguenza, il Prefetto di Trieste ha disposto la sua sospensione dalla carica di consigliere comunale in applicazione dell’art. 11, c. 2, del D.lgs n. 235/2012. E anche questo elemento solleva importanti problemi giuridici, che meritano qui di essere tutti presi in considerazione.
Procederò quindi in questo modo, illustrando i vari temi di rilievo giuridico implicati nel descritto episodio, seguendo questo ordine:
- Presunta natura vincolata dell’atto di sospensione dalla carica di consigliere comunale e libertà politica del rappresentante eletto;
- Questione dell’illegittimità del green pass e, in questo caso, dell’obbligo vaccinale;
- Diritto di disobbedire alle leggi reputate illegittime, in quanto prive del carattere dell’imperatività;
- Collocazione dei diritti umani e fondamentali nella gerarchia delle fonti e rapporto tra diritto umano e fondamentale e principio di sovranità popolare.
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3. La natura vincolata dell’atto di sospensione e la questione della giurisdizione. Un tema delicato è rappresentato dal fatto che la sospensione prefettizia dalla carica di consigliere comunale ai sensi dell’art. 11, c. 2, della legge 31 dicembre 2012 n. 235 (Disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di coprire cariche elettive e di governo) viene reputato atto totalmente vincolato rispetto alla determinazione, in questo caso, del GIP, con la conseguenza di attribuire la relativa giurisdizione del giudice ordinario e non al giudice amministrativo, indipendentemente dal fatto che nella specie siano coinvolte questioni afferenti all’esercizio di funzioni pubbliche.
Invero, la Suprema Corte di Cassazione a Sezioni a Unite, a tale riguardo, ha statuito che, “In realtà, il bilanciamento tra i due valori costituzionali risulta effettuato dal legislatore nel senso della chiara prevalenza della riferibilità del provvedimento alla sfera dell’elettorato passivo. Invero, nella configurazione legislativa dell’istituto non è attribuita alla P.A. alcuna discrezionalità in ordine all’adozione del provvedimento di sospensione; la sospensione opera di diritto al solo verificarsi delle condizioni legislativamente previste e per il tempo previsto dal legislatore; al Prefetto non è attribuito alcun autonomo apprezzamento in ordine all’adozione del provvedimento di sospensione e non è consentito di modularne la decorrenza o la durata sulla base della ponderazione di concorrenti interessi pubblici… sicché le controversie relative alla sospensione disposta ai sensi dell’art. 11 del d.lgs. n. 235 del 2012 sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario”[1].
Emergono qui subito due questione: vale a dire che, da un lato, il prefetto finisce con l’autoconfigurarsi come semplice passacarte della determinazione del GIP e che, per la stessa ragione, rivendicando il carattere “vincolato” del suo atto, il prefetto stesso pretende di non assoggettare il relativo procedimento di adozione al rispetto delle garanzie del contraddittorio, previste dagli artt. 7 e 8 della legge 7 agosto 1990 n. 241, ma anche dall’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Carta di Nizza).
La formula utilizzata è quella che “l’atto non potrebbe essere diverso da quello adottato”, che riprende la dizione, di cui all’art. 21-octies, c. 2, della legge 7 agosto 1990, n. 241, successivamente modificata, in materia di procedimento amministrativo: “Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Occorre quindi a tale proposito distinguere una disciplina procedimentale-sostanziale da una di natura processuale, dato che la pubblica amministrazione non viene autorizzata dalla norma a omettere le garanzie procedimentali; semmai viene onerata in sede processuale a dimostrare che il contenuto dell’atto non avrebbe potuto essere diverso, data la natura vincolata del provvedimento, con la conseguenza di trasferire il giudizio dall’atto al rapporto[2]; fermo restando, però, che non capita poi davvero così spesso che un atto sia a tal punto vincolato, vale a dire totalmente predeterminato nel contenuto, da potersi pacificamente affermare che il suo contenuto non avrebbe potuto essere altro che quello.
Tant’è che il fatto che un provvedimento sia in astratto “vincolato” non diviene di per sé pretesto per eludere le garanzie del contradditorio, autorizzando l’omissione della comunicazione dell’avvio del procedimento e del contraddittorio siano giustificate.
Al contrario, la giurisprudenza ormai è consolidata nel senso esattamente opposto: “La natura vincolata degli atti impugnati non costituisce valido motivo per omettere il rispetto delle garanzie partecipative in situazioni peculiari e giuridicamente complesse come quella analizzata nel caso di specie”[3]. La giurisprudenza già in precedenza si era ripetutamente pronunciata, affermando la sussistenza dell’obbligo di avviso dell’avvio anche nell’ipotesi di provvedimenti a contenuto totalmente vincolato, sulla scorta della condivisibile considerazione che la pretesa partecipativa del privato riguarda anche l’accertamento e la valutazione dei presupposti sui quali si deve comunque fondare la determinazione amministrativa[4].
D’altra parte, il principio in oggetto sale di grado nella gerarchia delle fonti attraverso l’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Carta di Nizza), che è atto appunto dell’Unione Europea, e quindi prevalente sull’ordinamento interno[5].
Giacché se pur è vero, come afferma la Cassazione, che, in casi come questo, il bilanciamento degli interessi è avvenuto in sede legislativa, posto che in sede legislativa non si assiste ad alcuna partecipazione procedimentale da parte del cittadino, è proprio il bilanciamento degli interessi come avvenuto in sede legislativa che deve potere essere sindacato in sede di partecipazione procedimentale, sollevando eventuali questioni di costituzionalità o di invalidità eurounitaria. Se così non fosse, assisteremmo all’incomprensibile paradosso che un diritto soggettivo, quale quello che emerge nella specie, finirebbe con il ricevere minori tutele rispetto all’interesse legittimo a fronte dell’esercizio di un potere discrezionale, il quale comporterebbe comunicazione di avvio del procedimento e contraddittorio, laddove un diritto soggettivo a fronte dell’esercizio di un potere supposto vincolato non riceverebbe tutela alcuna in sede procedimentale, ma, semmai, solo in sede processuale.
All’opposto, deve ritenersi che le due situazioni giuridiche soggettive ricevano, quantomeno, identica tutela, tanto più ove si ricada nell’ambito del diritto eurounitario, ove la distinzione, o non esiste, o è considerata del tutto irrilevante; viene in rilievo solamente in occasione di casi italiani, con riferimento ai quali la Corte di Giustizia ha ribadito che le due figure godono di pari e piena tutela[6]; e si noti che, così come nel diritto europeo non si distingue tra diritto soggettivo e interesse legittimo, allo stesso modo non si distingue di fatto tra nullità e annullabilità delle disposizioni di legge, ricondotte alla nozione generale di voidness, che ne consente senza drammi l’immediata disapplicazione.
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4. Ipotesi di illegittimità del green pass. Al fine di inquadrare correttamente un’azione di disobbedienza civile nei confronti di una legislazione reputata illegittima e ingiusta, occorre preliminarmente interrogarsi a proposito di tali illegittimità e ingiustizia.
È opinione diffusa che, attraverso il green pass, il Governo abbia proposto come concessione onerosa ai cittadini l’esercizio da parte loro di diritti umani e fondamentali di rango costituzionale e sovranazionale, i quali appartengono loro immediatamente e irrevocabilmente in forza della Costituzione e delle dichiarazioni internazionali dei diritti, che però vengono, prima abusivamente revocati, e poi nuovamente rilasciati, riconcessi graziosamente, ma in cambio del previo adempimento, di fatto estorto, di un onere gravoso, ossia adottare i comportamenti che consentono di conseguire il green pass stesso.
Il green pass e il green pass rafforzato comprimono, estinguendoli (secondo il linguaggio amministrativistico) e rendendoli “diritti in attesa di espansione”, per usare la formula del Sandulli, quindi “interessi legittimi” nell’accezione tradizionale e non “diritti soggettivi” pieni, una grande quantità di diritti umani elementari, connessi alle esigenze minimali del vivere civile e umano, che vengono -violando le basi del costituzionalismo liberale e del principio dello stato di diritto- subordinati a un discrezionale lasciapassare ottriato dello Stato, per il solo caso in cui, anche contro la propria autentica volontà, ci si inoculi: occorre qui sapere cogliere il salto di qualità, per il quale il diritto fondamentale viene, non più garantito a livello costituzionale come rigido, ma subordinato al lasciapassare discrezionale del governo, trasformando la Costituzione -con tutto l’insieme dei diritti umani e fondamentali- da rigida a flessibile, per cui non vale più il principio liberale per il quale tutto è consentito, salvo che non sia vietato per valida ragione, ma vale il “nuovo” principio, per il quale tutto è vietato, salvo che non sia assentito dal governo per ragioni che ritiene valide per assentire, ad esempio l’essersi vaccinato coi vaccini però da esso stesso autorizzati, dato che trattamenti di tipo diverso non assumono valenza autorizzatoria, il che rappresenta a sua volta discriminazione priva di fondamento scientifico, dato che il diritto positivo non può escludere alcuni rimedi medici a vantaggio di altri per mere ragioni di carattere politico.
Ora, se si viene a riconoscere che il governo goda di discrezionalità e flessibilità nell’amministrare i diritti umani e fondamentali -che da diritti primari posti al vertice della gerarchia delle fonti vengono d’imperio trasformati in libertà meramente autorizzate, come ha ripetutamente sottolineato Giorgio Agamben-, sulla base della proclamazione della superiorità, rispetto ai diritti umani e fondamentali, di un qualche “interesse pubblico” discrezionalmente individuato, sulla base di una qualche norma grimaldello cercata ad hoc nel testo costituzionale, questo “interesse pubblico” oggi viene individuato nella “salute”, ma un domani potrà essere individuato in una qualsiasi altra esigenza, che fosse ritenuta prevalente sui diritti umani dall’autorità di governo; e già si prospettano situazioni simili a proposito dell’”ambiente”, per cui il pretesto finisce con l’essere poi sempre la “salute”, come se l’art. 32 Cost., ovvero il nuovo art. 9, costituissero norme larvate sullo stato di eccezione, cosa che non è mai stata sostenuta da alcun autore, se non ad hoc e ad usum delphini negli ultimi due anni.
In effetti, se il “diritto in attesa di espansione” del Sandulli ha senso con riferimento a determinate condotte amministrate (si pensi all’urbanistica), non ha alcun senso se riferito a diritti fondamentali, i quali si stagliano come preclusivi e primari in un ordinamento lessicografico, salvo ammettere che se ne possa determinare un bilanciamento, fermo restando che ciò deve avvenire su basi scientifiche e oggettive e non propagandistiche ad uso “televisivo”.
Ora, tutto questo osta con specifiche disposizioni di diritto internazionale ed eurounitarie.
L’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, nella sua Risoluzione n. 2361 del 27 gennaio 2021, intitolata Covid-19 vaccines: ethical, legal and practical considerations, al punto 7.3.1 ha infatti previsto esplicitamente che è compito dei governi “ensure that citizens are informed that the vaccinationis NOT mandatory and that no one is politically, socially, or otherwise pressured to get themselves vaccinated, if they do not wish to do so themselves”. E al punto 7.3.2. “ensure that no one is discriminated against for not having been vaccinated, due to possible health risks or not wanting to be vaccinated.
A sua volta, il “Considerando” 36 del Regolamento (UE) 2021/953 del Parlamento europeo e del Consiglio del 14 giugno 2021 [su un quadro per il rilascio, la verifica e l’accettazione di certificati interoperabili di vaccinazione, di test e di guarigione in relazione alla COVID-19 (certificato COVID digitale dell’UE) per agevolare la libera circolazione delle persone durante la pandemia di COVID-19], ha stabilito che “È necessario evitare la discriminazione diretta o indiretta di persone che non sono vaccinate, per esempio per motivi medici, perché non rientrano nel gruppo di destinatari per cui il vaccino anti COVID-19 è attualmente somministrato o consentito, come i bambini, o perché non hanno ancora avuto l’opportunità di essere vaccinate o hanno scelto di non essere vaccinate”, così precisato a seguito di una rettifica della omissiva traduzione italiana, che ha determinato il verificarsi di una magra figura internazionale del nostro Paese, essendo stato tralasciato in un primo momento il riferimento alle persone che “hanno scelto di non essere vaccinate” (cfr. Rettifica in Gazzetta ufficiale dell’Unione europea L 211 del 15 giugno 2021).
Si noti che, in base all’art. 17, “Il presente regolamento è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri”, quindi ciò vale anche per il “Considerando 36”, il quale, comunque, in base ai principi è parte motiva e come tale innerva l’ermeneutica dell’intero testo regolamentare europeo.
Nel frattempo, una rivista scientifica autorevole come “Lancet” si è espressa in questi termini sulla questione della discriminazione tra vaccinati e non vaccinati, tanto con riferimento a strumenti come il green pass, quanto con riferimento alla sensatezza di una vaccinazione resa obbligatoria in una situazione come l’attuale: “…l’impatto della vaccinazione sulla trasmissibilità di SARS-CoV-2 deve essere chiarito. Uno studio di coorte prospettico nel Regno Unito di Anika Singanayagam e colleghi per quanto riguarda la trasmissione comunitaria di SARS-CoV-2 tra individui non vaccinati e vaccinati fornisce informazioni importanti che devono essere prese in considerazione nella rivalutazione delle politiche di vaccinazione.Questo studio ha mostrato che l’impatto della vaccinazione sulla trasmissione nella comunità delle varianti circolanti di SARS-CoV-2 non sembrava essere significativamente diverso dall’impatto tra le persone non vaccinate. La logica scientifica per la vaccinazione obbligatoria negli Stati Uniti si basa sulla premessa che la vaccinazione impedisce la trasmissione ad altri, provocando una “pandemia dei non vaccinati”. Tuttavia, la dimostrazione di infezioni rivoluzionarie da COVID-19 tra gli operatori sanitari (HCW) completamente vaccinati in Israele, che a loro volta possono trasmettere questa infezione ai loro pazienti, richiede una rivalutazione delle politiche di vaccinazione obbligatoria che portano al licenziamento del personale sanitario non vaccinato negli Stati Uniti. In effetti, vi sono prove crescenti che i titoli virali di picco nelle vie aeree superiori dei polmoni e il virus coltivabile siano simili negli individui vaccinati e non vaccinati. Una recente indagine dei Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie su un focolaio di COVID-19 in una prigione del Texas ha mostrato la uguale presenza di virus infettivi nel rinofaringe di individui vaccinati e non vaccinati. Allo stesso modo, i ricercatori in California non hanno osservato differenze importanti tra individui vaccinati e non vaccinati in termini di carica virale SARS-CoV-2 nel rinofaringe, anche in quelli con comprovata infezione asintomatica”[7].
Eppure, c’è una parte dell’opinione pubblica, anche “autorevole”, oltre che ovviamente ampia parte del mondo politico, la quale continua a sostenere che in realtà il green pass non lederebbe alcuna libertà, dato che uno potrebbe sempre scegliere di non vaccinarti o adempiere con l’onere dei tamponi, per i casi in cui oggi occorra il green pass rafforzato, per cui essere o no titolari di green pass sarebbe sempre e comunque una “libera” scelta.
Senonché si tratta di una perniciosa confusione filosofica tra due concetti molto diversi tra loro, ossia il libero arbitrio e la libertà empirica. Il libero arbitrio consente in effetti anche, come diceva Gandhi, di scegliere il martirio piuttosto che obbedire all’ordine illegale e/o ingiusto, quindi il libero arbitrio non si perde mai, neppure in catene, dato che potrò sempre escogitare un modo per liberarmi dalle catene. La libertà empirica, che è quella di cui si parla in politica e che rileva ai fini del diritto, è quella di potere effettivamente svolgere un’attività in assenza di IMPEDIMENTI MATERIALI, fermo appunto restando che nemmeno gli impedimenti materiali fanno perdere il mio libero arbitrio, che alcuni potrebbero sostenere esserci stato concesso direttamente da Dio: ovvio quindi che l’obbligo o onere di green pass non lede, né potrebbe, il libero arbitrio: lede invece la libertà empirica, la quale, nell’universo del diritto si esprime attraverso i diritti fondamentali riconosciuti ai livelli supremi della gerarchia delle fonti.
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5. Ipotesi di illegittimità, nel caso dei vaccini in oggetto, dell’obbligo vaccinale.
Si è appena evidenziato come l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, nella sua Risoluzione n. 2361 del 27 gennaio 2021, intitolata Covid-19 vaccines: ethical, legal and practical considerations, al punto 7.3.1 abbia previsto esplicitamente che è compito dei governi “ensure that citizens are informed that the vaccinationis NOT mandatory and that no one is politically, socially, or otherwise pressured to get themselves vaccinated, if they do not wish to do so themselves”.
In altri termini, il Consiglio d’Europa puramente e semplicemente dà per scontato che i vaccini in questione non possano essere resi obbligatori, nonché che tutto l’apparato di “spinta gentile”, si fa per dire, messo in opera dal nostro governo per “indurre” le persone a vaccinarsi pur in assenza di obbligo sia illegale, tant’è che si limita a prescrivere ai governi stessi di “assicurare che i cittadini ne siano informati”.
Ora, un atto del Consiglio d’Europa, che è l’organizzazione internazionale specificamente deputata nel nostro Continente alla salvaguardia e alla promozione dello Stato di diritto e dei diritti umani, va quantomeno collocato, per quanto riguarda la gerarchia delle fonti, nell’ambito delle norme interposte, e quindi superiore alla legge ordinaria -e a fortiori alla decretazione d’urgenza!- e comunque non può certo essere ignorato dal nostro governo, pena l’esporsi sul piano internazionale alla stregua di un’agenzia offensiva dei diritti umani e dello Stato di diritto.
Semmai è interessante sottolineare per quale ragione l’Assemblea del Consiglio d’Europa dia così per scontato che i vaccini Covid-19 non possano essere “mandatory”, quindi obbligatori: ossia che nella specie si tratta di vaccini sperimentali (a dispetto di tutta una campagna mass-mediatica volta a negarlo). E invero, al punto 7 della delibera in questione può leggersi quanto segue:
“7. Scientists have done a remarkable job in record time. It is now for governments to act. The Assembly supports the vision of the Secretary-General of the United Nations that a Covid-19 vaccine must be a global public good. Immunisation must be available to everyone, everywhere. The Assembly thus urges member States and the European Union to:
7.1 with respect to the development of Covid-19 vaccines:
7.2 ensure high-quality trials that are sound and conducted in an ethical manner in accordance with the relevant provisions of the Convention for the Protection of Human Rights and Dignity of the Human Being with regard to the Application of Biology and Medicine: Convention on Human Rights and Biomedicine (ETS No. 164, Oviedo Convention) and its Additional Protocol concerning Biomedical Research (CETS No. 195), and which progressively include children, pregnant women and nursing mothers; (trials viene tradotto con “sperimentazioni”)
7.1.2 ensure that regulatory bodies in charge of assessing and authorising vaccines against Covid-19 are independent and protected from political pressure;
7.1.3. ensure that relevant minimum standards of safety, efficacy and quality of vaccines are upheld;
7.1.4. implement effective systems for monitoring the vaccines and their safety following their roll-out to the general population, also with a view to monitoring their long-term effects;
7.1.5. put in place independent vaccine compensation programmes to ensure compensation for undue damage and harm resulting from vaccination[8].
Conferma si trae dalla stessa lettura del sito dell’EMA, pagina aggiornata al novembre 2021, ove si ricava quanto segue con riferimento al vaccino prodotto dalla Pfizer: “Può Comirnaty ridurre la trasmissione del virus da una persona a un’altra? L’impatto della vaccinazione con Comirnaty sulla diffusione del virus SARS-CoV-2 tra la popolazione non è ancora noto. Non si conosce ancora fino a che punto i soggetti vaccinati possano ancora essere portatori del virus e in grado di diffonderlo. Quanto dura la protezione di Comirnaty? Al momento non si conosce la durata della protezione conferita da Comirnaty. Le persone vaccinate nell’ambito della sperimentazione clinica continueranno a essere monitorate per 2 anni per raccogliere maggiori informazioni sulla durata della protezione. Quali sono i rischi associati a Comirnaty? Gli effetti indesiderati più comuni di Comirnaty sono stati solitamente lievi o moderati e si sono affievoliti entro pochi giorni dalla vaccinazione. Tra questi figuravano dolore e tumefazione nel sito di iniezione, stanchezza, cefalea, dolore muscolare e articolare, brividi, febbre e diarrea. Hanno riguardato più di 1 persona su 10. Arrossamento nel sito di iniezione, nausea e vomito si sono verificati in meno di 1 persona su 10. Prurito nel sito di iniezione, dolore nel braccio in cui il vaccino è stato iniettato, linfonodi ingrossati, difficoltà a dormire, sensazione di star poco bene, appetito ridotto, letargia (mancanza di energia), iperidrosi (sudorazione eccessiva), sudorazione notturna, astenia (debolezza) e reazioni allergiche (quali eruzione cutanea, sensazione di prurito, esantema pruriginoso e rapida comparsa di tumefazione sottocutanea) sono stati effetti indesiderati non comuni (hanno riguardato meno di 1 persona su 100). Debolezza nei muscoli di un lato del viso (paralisi facciale periferica acuta) si è verificata raramente, in meno di 1 persona su 1.000. Con Comirnaty è stato rilevato un numero molto limitato di casi di miocardite (infiammazione del muscolo cardiaco) e pericardite (infiammazione della membrana che circonda il cuore) nonché tumefazione generalizzata del braccio vaccinato e tumefazione del viso in persone alle quali sono state praticate iniezioni con filler dermici (sostanze morbide simili a gel iniettate sotto la pelle). Si è verificato anche un numero molto esiguo di casi di eritema multiforme (macchie rosse sulla pelle con un disco centrale rosso scuro e anelli rossi più chiari). Inoltre si sono verificate reazioni allergiche, compreso un numero molto esiguo di casi di reazioni allergiche gravi (anafilassi). Come per tutti i vaccini, Comirnaty deve essere somministrato sotto stretta supervisione medica e deve essere disponibile un trattamento medico adeguato”.
A sua volta, l’AIFA, con documento reso noto in data 29 dicembre 2021 (Riassunto Caratteristiche Prodotto), ha precisato che “Per confermare l’efficacia e la sicurezza di Comirnaty, il titolare dell’autorizzazione all’immissione in commercio deve fornire la relazione finale sullo studio clinico relativa allo studio C4591001 randomizzato, controllato verso placebo, in cieco per l’osservatore. Dicembre 2023. Per confermare l’efficacia e la sicurezza di Comirnaty, il titolare dell’autorizzazione all’immissione in commercio deve fornire la relazione finale sullo studio clinico relativa allo studio C4591007 randomizzato, controllato verso placebo, in cieco per l’osservatore. Luglio 2024” (pag. 68).
Nell’UE sono tre i regimi autorizzatori previsti dalla normativa europea (Reg. 726/2004, sulle procedure comunitarie per l’autorizzazione e la sorveglianza dei medicinali per uso umano e veterinario, istitutiva dell’EMA, l’Agenzia Europea per i Medicinali; Reg. 507/2006, relativo all’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata dei medicinali per uso umano) e sono i seguenti: 1) Standard Marketing Authorization, che interviene alla fine del processo di sperimentazione del farmaco; 2) Exceptional Circumstances Authorization, relativi a casi particolari in cui è impossibile o non etica la raccolta di dati necessari per l’autorizzazione standard; 3) Conditional Marketing Authorization, autorizzazione condizionata che riguarda il caso del vaccino per il Covid 19.
In base al Reg. 507/2006: “Prima di ottenere l’autorizzazione all’immissione in commercio in uno o più Stati membri, un medicinale per uso umano va in genere sottoposto a studi approfonditi volti a garantirne la sicurezza, l’elevata qualità e l’efficacia di impiego per la popolazione destinataria” (Considerando 1) e “nel caso di determinate categorie di medicinali, al fine di rispondere a necessità mediche insoddisfatte dei pazienti e nell’interesse della salute pubblica, può […] risultare necessario concedere autorizzazioni all’immissione in commercio basate su dati meno completi di quelli normalmente richiesti e subordinate ad obblighi specifici, di seguito «autorizzazioni all’immissione in commercio condizionate» (Considerando 2)”. Questo significa che gli accertamenti tecnici su cui si basa l’autorizzazione condizionata sono basati su dati parziali, provvisori, inevitabilmente incompleti e implica che l’autorizzazione condizionata è concessa sulla base del fatto che è probabile che il soggetto che chiede l’autorizzazione sarà in grado di offrire i dati necessari dopo l’autorizzazione (“it is likely that the applicant will be able to provide comprehensive data post-authorisation”). Questo si intende per autorizzazione condizionata: la sua validità è subordinata alla condizione della costante produzione di dati che sono in fase di gathering.
Si legge infatti nel pur parzialmente reticente nei toni comunicato EMA in data 21 dicembre 2020: “Autorizzazione all’immissione in commercio subordinata a condizioni… Poiché Comirnaty ha ricevuto un’autorizzazione all’immissione in commercio subordinata a condizioni, il titolare dell’autorizzazione all’immissione in commercio continuerà a fornire i risultati dello studio principale, che durerà 2 anni. Lo studio principale e altri studi aggiuntivi forniranno informazioni sulla durata della protezione, sulla capacità del vaccino di prevenire la forma grave di COVID-19, sulla misura in cui il vaccino protegge le persone immunocompromesse, i bambini e le donne in gravidanza, e sulla capacità di prevenire i casi asintomatici. L’azienda condurrà inoltre studi per offrire ulteriori garanzie sulla qualità farmaceutica del vaccino man mano che la produzione continuerà ad aumentare”. Insomma, per due anni ancora si chiede ai cittadini di sottoporsi a sperimentazione.
In un caso del genere, non sembrerà eccessivo invocare il principio del Codice di Norimberga sulla necessità assoluta del consenso in casi di simili esperimenti, considerato che l’art. 1 vieta non solo l’obbligatorietà, na qualsiasi forma di pressione coattiva, quindi al di là dello stesso “obbligo giuridico”, essendo precluso qualsiasi “intervention of any element of force, fraud, deceit, duress, over-reaching, or other ulterior form of constraint or coercion”: in Italia, pur non esistendo obbligo generalizzato, esiste una quantità di forme costrittive, morali, formali e materiali, in assenza di obbligo, attraverso la famosa “spinta gentile”, che tanto gentile non è, trattandosi di forme di pressione di notevole consistenza e invadenza, come la sottoposizione a green pass per lo svolgimento di una serie di attività elementari.
A tale riguardo, la dottrina più recente ha notato come sia impossibile imporre la vaccinazione obbligatoria per i vaccini Covid-19, dato il loro carattere ancora non definitivo, che ne ha consentito l’autorizzazione esclusivamente sulla base di una procedura d’urgenza, dante luogo ad autorizzazione condizionata all’immissione in commercio (Conditional marketing authorization), utilizzabile anche in caso di Public Health Emergency). Senonché la dottrina in questione sottolinea come la non suscettibilità del vaccino a essere reso obbligatorio, in base all’art. 16 della Convenzione di Oviedo (Convenzione per la protezione dei Diritti dell’Uomo e della dignità dell’essere umano nei confronti delle applicazioni della biologia e della medicina: Convenzione sui Diritti dell’Uomo e la biomedicina. Oviedo, 4 aprile 1997), impedisce anche la possibilità di sottoporre condotte a disincentivi, in guisa tale da indurre sostanzialmente all’assunzione di un vaccino che non può essere reso obbligatori[9].
Orbene, siffatto carattere condizionato a (duplice) relazione finale dell’autorizzazione, esclude la possibilità che ne sia disposto l’obbligo, anche sotto il profilo che un farmaco condizionato può essere somminsitrato solo dietro ricetta medica, come può leggersi a chiare lettere al punto B dell’Allegato II del Riassunto delle Caratteristiche del Prodotto – CONDIZIONI O LIMITAZIONI DI FORNITURA E UTILIZZO: ”Medicinale soggetto a prescrizione medica” (pag. 65), d tal che il farmaco deve essere prescritto dal medico sulla base di ragioni di scienza e coscienza, e giammai può essere imposto dal legislatore.
In effetti, un’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata (CMA) è limitata a quanto in essa previsto (“immissione in commercio”, secondo le regole del commercio dei farmaci), e non può essere estesa, se non in un sia oggetto di un ambito di normazione a livello europeo, quindi pari grado, all’obbligatorietà di quanto semplicemente immesso in commercio; il che sarebbe un paradosso o un ossimoro, che semplicemente vanificherebbe le garanzie di sicurezza apposte al commercio, che è concetto ontologicamente opposto, in quanto fondato sul consenso nell’acquisto, oltre che sulla prescrizione medica, a quello di obbligo di assunzione ex lege (cfr. Domande e risposte, Autorizzazione immissione in commercio condizionata, Commissione Europea).
È quindi escluso che un farmaco soggetto a immissione in commercio condizionata possa essere somministrato e assunto dal paziente senza che alcun medico, attraverso la prescrizione, se ne sia assunto la responsabilità sulla base di valutazioni mediche caso per caso, e non sulla base di una “prescrizione” politica del legislatore “popolo per popolo”, il che si appalesa estremamente grossolano e lesivo della dignità della persona, oltre che del suo diritto alla salvaguardia della propria salute individuale[10].
Senonché, in un contesto in cui i vaccini in questione risultano sempre più controversi sul piano scientifico, tanto nell’innocuità, quanto nell’efficacia -del resto l’EMA parla esplicitamente di “sperimentazione” in corso-, il che dovrebbe indurre a rispettare le scelte individuali, le scelte di coscienza ex art. 9 CEDU, i calcoli costi/benefici individuali e non imposti d’autorità, oltretutto al di là del lecito. Val la pena di sottolineare come il concetto di vaccino sperimentale non sia incompatibile con la sua immissione in commercio, tanto più quando condizionata come nel nostro caso: tanto si ricava dal Considerando 11 del Regolamento (UE) n. 536/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 aprile 2014 (Sulla sperimentazione clinica di medicinali per uso umano e che abroga la direttiva 2001/20/CE), il quale parla sia pure di prescrizioni meno stringenti a date condizioni -peraltro molte delle quali del tutto assenti nella specie-, ma di certo non giunge ad ammettere l’obbligatorietà per un vaccino, il quale, pur posto condizionatamente in commercio, conservi detto proprio carattere di sperimentazione.
Tant’è vero che, al Considerando 27 del Regolamento sesso può leggersi: “La dignità umana e il diritto all’integrità della persona trovano riconoscimento nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (la «Carta»). In particolare, secondo la Carta nessun intervento nell’ambito della medicina e della biologia può essere eseguito senza il consenso libero e informato della persona interessata. La direttiva 2001/20/CE contiene un ampio complesso di norme per la tutela dei soggetti. Tali norme dovrebbero essere mantenute”.
Orbene, il Regolamento stesso, al Capo V, dispone che la conduzione di una sperimentazione clinica è «consentita esclusivamente se tutte le seguenti condizioni sono soddisfatte: (..) h) i soggetti non hanno subito alcun indebito condizionamento, anche di natura finanziaria, per partecipare alla sperimentazione clinica» (art. 28, comma 1, capo h), con la conseguenza che, dall’entrata in vigore del Regolamento in data 31 gennaio 2022 -acclarato come si è dimostrato, il carattere sperimentale della presente campagna vaccinale – nessun cittadino italiano può essere obbligato o altrimenti indotto ad assumere in assenza di autentico consenso libero e informato i vaccini in questione, stante che il Regolamento stesso opera, o quale ius superveniens con efficacia abrogativa, o comunque esplica l’effetto tipico proprio del regolamento eurounitario nei confronti dell’ordinamento interno in contrasto, ossia quello della disapplicazione.
Tutto ciò dovrebbe consentire quantomeno l’applicazione del principio di precauzione, nel senso che non vaccinarsi, in tale contesto, diventa una scelta conforme al principio di precauzione, mentre è l’obbligo o l’induzione al vaccino a rivelarsi contraria a tale basilare principio, consistente a sua volta nell’esercizio di un diritto umano, in quanto ognuno applichi liberamente a sé il principio di precauzione stesso.
La rilevanza del problema si viene sempre di più accentuando che, considerato che, a fronte delle nuove varianti del virus, l’efficacia temporale del vaccino è in drastica diminuzione, si chiedono ai cittadini una terza, una quarta e poi annuale una dose vaccinale, di tal che i diritti “conquistati” vaccinandosi si riperdono non rinnovando di continuo la dose di vaccino, per cui si diventa costretti, dalla scarsa capacità immunizzante del vaccino, a una sorta di “tossicodipendenza” al solo fine di potere esercitare senza disturbo i propri diritti fondamentali e non andare incontro alla loro revocazione periodica! Quanto agli effetti avversi denunciati, anche letali, seppure la correlazione con il vaccino non viene poi ufficialmente sempre riconosciuta, se ne veda l’abbondanza in Healthimpactnews.com, November 28, 2021, con riferimento alle segnalazioni risultanti da EudraVigilance, documento che si produce. Per quanto riguarda l’Italia, i dati ufficiali AIFA parlano di 608 casi fatali segnalati in vigilanza solo passiva -il che significa che i casi sono molti di più, visto che questo dato riguarda esclusivamente le segnalazioni spontanee del medico di base-, con riconosciuta correlazione certa con la vaccinazione almeno con riferimento a 22 casi (“Rapporto sulla sorveglianza dei vaccini Covid-19 – 27/12/2020 – 26/09/2021”, pag. 13), il che però già di per sé preclude qualsiasi forma di obbligo o di pressione “di induzione” di qualsiasi tipo, dato che anche un solo morto da effetto avverso sarebbe sufficiente a non consentire di rendere obbligatoria la vaccinazione, e quindi però sarebbe sufficiente anche a precludere le “induzioni coattive” del tipo in discorso.
E in effetti, la Corte Costituzionale ha riconosciuto che lo Stato non può imporre al cittadino addirittura un rischio, pur “piccolo”, di morte, come si ricava con chiarezza dalla sentenza 307/1990 (cfr. infra). In tali casi, si può negare l’autodeterminazione della scelta e la libertà di coscienza in nome di un presunto “interesse collettivo” superiore, solo calpestando, con i diritti umani, il precetto kantiano, per il quale l’essere umano è fine in sé, e non mezzo per soddisfare fini ulteriori, altri dalla persona umana, coincidenti qui con un’astratta collettività, o, più realisticamente, con determinati fini politici.
Concetto del resto enunciato dalla Corte Costituzionale, proprio a proposito di vaccini obbligatori e di cure obbligatorie, allorché ha ribadito che nessun individuo particolare può essere sacrificato in nome di un interesse collettivo, ammettendosi l’obbligatorietà del vaccino solo quando gli effetti avversi sono quelli basici inevitabili del mero atto dell’inoculazione, altrimenti si tratta di compressione del diritto alla salute individuale inaccettabile nella nostra civiltà. Del resto, essendo così controversi e contraddittori i dati, emerge il carattere non adeguatamente testato dei farmaci in questione.
E invero, con la sentenza n. 5/2018 la Corte Costituzionale ha affrontato la questione di legittimità costituzionale del D.L. n.73/2017, statuendo i principi in base ai quali, in alcune ipotesi, può prevalere l’interesse della salute pubblica sull’autodeterminazione dei singoli. In particolare, la Corte Costituzionale, ha ritenuto legittimo il mezzo del decreto-legge per l’imposizione del trattamento, solo in riferimento alla situazione sanitaria del 2017, anno in cui si era verificata una preoccupante ondata di casi di morbillo, ma, si badi bene, con riferimento a vaccini fondamentalmente incontestati o comunque poco controversi.
In quel caso, la Corte ha riconosciuto una discrezionalità del legislatore, ma sempre alla luce di acquisizioni scientifiche “sempre in evoluzione” (cfr. Corte Costituzionale, n. 282/2002), mentre nel nostro caso l’evoluzione giochi contro l’obbligo, stante una variante Omicron che sfugge in buona parte alla capacità immunizzante dei vaccini originari.
Ma c’è di più: la Corte ha stabilito che l’obbligo vaccinale non contrasta con l’art. 32 Cost., solo a stringenti condizioni, vale a dire che: a) il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è sottoposto, ma anche a preservare lo stato di salute altrui; b) si preveda che esso non incida negativamente sullo stato di salute del soggetto obbligato, salvo che per quelle sole conseguenze che appaiano normali e, pertanto, tollerabili; c) nell’ipotesi di un danno ulteriore, si preveda comunque la corresponsione di un’equa indennità in favore del danneggiato (cfr. Corte Costituzionale, sentenze nn. 258/1994 e 307/1990).
Ora, ormai, nell’attuale situazione tali condizioni non sussistono, dato che, sotto il primo profilo, è pacifico che il vaccino non offre capacità immunizzante, stante la messe di vaccinati infetti e infettanti che abbiamo di fronte; sotto il secondo profilo si è detto, vista la mole ingente delle reazioni avverse anche fatali, mentre il terzo profilo rimane tuttora alquanto indeterminato.
Che in un simile contesto uno possa essere costretto o indotto a vaccinarsi contro la sua volontà, costretto quindi o indotto ad assumersi rischi, che in libera coscienza e arbitrio non sarebbe disposto ad assumersi, oltretutto in lesione del principio di precauzione, deve essere considerato illegittimo, dato che il presupposto minimo di un’obbligatorietà vaccinale, o anche solo di una forte “induzione” vaccinale, è la sicura efficacia del trattamento, dato che rasenta l’assurdo comprimere il diritto individuale, ponendo a rischio la salute della persona, senza nemmeno la certezza che ciò abbia davvero utilità, tanto sul piano personale, tanto sul piano collettivo e sociale: e invero, “la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’art. 32 della Costituzione se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale. Ma si desume soprattutto che un trattamento sanitario può essere imposto solo nella previsione che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato, salvo che per quelle sole conseguenze, che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiano normali di ogni intervento sanitario, e pertanto tollerabili»[11].
In questa vicenda, fanno difetto entrambi i presupposti, ossia la certezza tanto dell’utilità sociale, quanto quella della non dannosità individuale, la quale dannosità, anzi, ha evidenze statistiche di una certa rilevanza, il che esclude che si possa barattare un rischio di danno alla salute individuale effettivamente presente con una notevole non-certezza di efficacia nell’interesse collettivo del farmaco, in una situazione in cui sono sempre più frequenti le segnalazioni in arrivo di casi in cui sono i vaccinati a infettare i non vaccinati, e non viceversa; e invero, ne “La Repubblica” del 29 dicembre 2021, può leggersi quanto segue: “Dopo 2 dosi di vaccino Pfizer/BioNTech, l’attività neutralizzante contro il virus originario diminuisce di 4 volte nel periodo di 5 mesi (da 546 a 139) e contro Omicron il 30-37% dei campioni ha mostrato una neutralizzazione rilevabile. Sono i dati che arrivano da uno studio condotto dall’università di Colonia con altri atenei tedeschi, sottoposto a peer-review e accettato per la pubblicazione su ‘Nature Medicine’” (peraltro, il giorno stesso, sul sito del medesimo quotidiano poteva leggersi il seguente titolo: “Omicron non turba Montecitorio. Niente misure speciali per il voto sul Quirinale”).
Siamo dunque in una situazione, nella quale gli scienziati più accreditati hanno addirittura salutato l’arrivo di Omicron, in quanto variante del virus in grado addirittura di porre fine alla vicenda pandemica, in quanto variante depotenziata, per quanto diffusiva, ma con il vantaggio di rendere endemico il virus, favorendo l’immunità di gregge, mentre la “politica” e il governo reagiscono alimentando allarmismo e adottando misure sempre più restrittive, ma ciò appunto in assenza di alcun serio fondamento scientifico.
Si noti, poi, che nella vicenda italiana, nemmeno la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo Vavricka vs. Repubblica Ceca sarebbe in grado di supportare un obbligo vaccinale, difettando i due requisiti ivi indicati, ossia a) la finalità del raggiungimento dell’immunità di gregge, che è fuori portata nel caso di questi vaccini e di questa variante, nonché b) il carattere proporzionato delle sanzioni per l’inottemperanza all’obbligo, dato che nel nostro caso le conseguenze non sono per nulla proporzionate, ma devastanti, come la perdita del lavoro e della retribuzione, nonché la completa emarginazione sociale, che, alla luce della nostra legislazione, viene per assurdo conseguita persino in assenza di obbligo!
Ebbene, l’introduzione oggi esplicita dell’obbligo per gli ultra-cinquantenni, e in particolare per i lavoratori, non sposta minimamente i termini della questione, dato che alla sanzione pecuniaria per la trasgressione all’obbligo si assommano tutte le altre forme di emarginazione e di esclusione dalla vita associata, di cui si è detto, anzi, altre se ne aggiungono, di tal che la violazione del principio di proporzionalità, non solo permane, ma semmai si aggrava, dallo stesso punto di vista della giurisprudenza CEDU, in particolare per le pesantissime conseguenze, gravanti sui lavoratori in violazione degli artt. 1, 4 e 36 Cost., vale a dire nientedimeno che la perdita della sussistenza e la messa sul lastrico.
In effetti, i provvedimenti in questione vengono in effetti sempre adottati in nome del “diritto alla salute”, ma la Costituzione italiana parla di “interesse della collettività” alla salute, mentre il “diritto” alla salute è quello dell’individuo (art. 32 Cost.); salvo che un “diritto”, anche se individuale, prevale sul mero “interesse”, anche se collettivo, il che distingue la civiltà occidentale da altri tipi di civiltà totalitaria (cfr. del resto art. 16 Convenzione di Oviedo): invero, quando un Autore come Paolo Grossi sostiene che il “diritto alla salute” è il primo dei diritti fondamentali, sta parlando del diritto dell’individuo che non deve essere leso, nel senso che nessuno è legittimato a ledere attivamente la salute di un soggetto; senonché, l’”interesse della collettività” alla salute non può invece essere configurato come pretesto per ledere tutti gli altri diritti soggettivi di fondamentale rilievo, in nome di un’ipotesi di “perseguimento attivo” di quell’”interesse”, anche alla luce della precisazione, sempre contenuta nell’art. 32, secondo il quale il perseguimento della salute non deve mai ledere la dignità umana, occorre sempre agire nel “rispetto della persona umana” (c. 3), anche alla stregua dell’inderogabilità dei diritti fondamentali (“inviolabili”) ai sensi dell’art. 2 Cost.
D’altra parte, se il Costituente avesse inteso equiparare gerarchicamente diritto individuale alla salute, che prevale, e interesse della collettività alla salute, avrebbe chiamato quest’ultimo “diritto della collettività”, e non mero “interesse”: in ogni caso, il bilanciamento tra l’uno e l’altro deve avvenire allegando elementi concreti verificabili, e non petizioni di principio, dato che un testo normativo non è una dichiarazione alla stampa o alla televisione: al contrario, ciò che brilla nella presente vicenda normativa è la completa assenza di dati scientifici a supporto delle determinazioni assunte, pur quando esse appaiono del tutto estreme e sconsiderate.
In definitiva, l’obbligo vaccinale con riferimento agli odierni vaccini relativi al Covid-19 è del tutto inconcepibile, tanto alla luce del diritto eurounitario, quanto alla precisa luce della giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia di obblighi vaccinali.
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6. Se il nostro ordinamento preveda un diritto di resistenza: digressione sull’art. 54 Cost.
Varrà dunque la pena, a questo punto, proporre un rapido excursus sulla questione del diritto di resistenza, al fine di evidenziarne la chiara compatibilità con l’art. 54 Cost., anzi, per certi versi, la sua esplicita previsione da parte della disposizione stessa[12].
Il diritto di resistenza come istituto giuridico codificato inizia a concretarsi con la Magna Charta Libertatum del 1215, concessa da Giovanni “senza terra” ai Baroni; in particolare, all’art. 61, rubricato “clausola di sicurezza”, veniva imposto a Giovanni di concedere ad un Comitato di venticinque baroni il diritto, in caso di sua violazione del patto, “di sequestrarlo e ridurlo alla miseria in tutti i modi, cioè con la requisizione dei suoi castelli, delle terre e di ogni altro possedimento in qualsiasi altro modo possibile”.
Il diritto di resistenza trovò quindi riconoscimento all’interno della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America del 5 luglio 1776 :“Noi riteniamo che tutti gli uomini sono stati creati tutti uguali, che il Creatore ha fatto loro dono di determinati inalienabili diritti (…) che ogni qualvolta una determinata forma di governo giunga a negare tali fini, sia diritto del popolo il modificarla o l’abolirla, istituendo un nuovo governo che ponga le basi su questi principi (…) Allorché una lunga serie di abusi e di torti (…) tradisce il disegno di ridurre l’umanità ad uno stato di completa sottomissione, diviene allora suo dovere, oltre che suo diritto, rovesciare un tale governo”. Fonte a cui si ispirò anche l’art. 2 della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789 della Francia rivoluzionaria, il quale stabiliva: “Lo scopo di ogni società è la conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà e la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione”.
Venendo a noi, fu il Prof. Giuseppe Dossetti, unico tra i professori democristiani costituenti ad essere stato partigiano attivo, ad avanzare la sua proposta in prima sottocommissione ispirandosi alla Costituzione francese del 1946: “La resistenza individuale e collettiva agli atti dei pubblici poteri che vìolino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino”. L’on. Prof. Aldo Moro, a sua volta, osservò: “si precisa come al singolo, o alla collettività, spetti la resistenza contro lo Stato, se esso, avvalendosi della sua veste di sovranità, tenta di menomare i diritti sanciti dalla Costituzione e dalle leggi. Solo dopo aver dichiarato che la sovranità dello Stato è nell’ambito dell’ordinamento giuridico, si ha la possibilità di sancire nella Costituzione il diritto di resistenza, contro gli atti di arbitrio dello Stato”. Qualificandolo magari come dovere, per cui la norma avrebbe dovuto avere “un preciso e netto significato giuridico, in quanto pone un criterio direttivo al legislatore penale, affinché non consideri come reati degli atti commessi con apparenza delittuosa; ma che hanno invece il nobile scopo di garantire la libertà umana”: facendo riferimento allo “scopo”, Moro sottolineava un punto fondamentale, ossia la rilevanza del giudizio soggettivo da parte dell’agente, indipendentemente dall’eventualità dell’errore in tale giudizio soggettivo. Cevolotto osservò che la resistenza “è anche un dovere, specialmente nei riguardi di alcune categorie di cittadini, come per esempio i pubblici ufficiali che devono avere il dovere di opporsi a un ordine del superiore che sia contrario alle norme della Costituzione”.
Comunque, la prima sottocommissione approvò l’articolo, e dopo il passaggio nel Comitato di redazione (o dei 18) il testo sulla resistenza entrò – leggermente modificato – come secondo comma dell’articolo 50, nel progetto di Costituzione presentato alla presidenza dell’Assemblea Costituente il 31 gennaio 1947 (Parte prima, Diritti e Doveri dei cittadini). Vero che, rispetto all’originale di Dossetti, il testo era solo esteriormente più debole, dato che continuava ad ammettersi disobbedienza e resistenza: “Quando i poteri pubblici vìolino le libertà fondamentali e di diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino”.
Il Prof. Costantino Mortati presentò un emendamento, che però confermava il diritto di resistenza: “È diritto e dovere dei cittadini, singoli o associati, la resistenza che si renda necessaria a reprimere la violazione dei diritti individuali e delle libertà democratiche da parte delle pubbliche autorità”.
Ora, è vero che, quando si votò il testo dell’attuale art.54 (che intanto aveva sostituito l’art.50 del Progetto), l’esplicitazione del diritto di resistenza fu soppresso, nonostante il voto favorevole dei comunisti, dei socialisti e degli autonomisti, ma si ritenne fosse comunque assorbito nel principio di fedeltà alla Costituzione, sol perché, come sottolineò Mortati “Non è al principio che noi ci opponiamo, ma alla inserzione nella Costituzione di esso e ciò perché a nostro avviso il principio stesso riveste carattere metagiuridico, e mancano, nel congegno costituzionale, i mezzi e le possibilità di accertare quando il cittadino eserciti una legittima ribellione al diritto e quando invece questa sia da ritenere illegittima. Siamo condotti con questa disposizione sul terreno del fatto, e pertanto su un campo estraneo alla regolamentazione giuridica. Si è detto che questo articolo potrebbe avere un valore educativo, e questo è vero. Ma bisogna allora stabilire se la Costituzione debba essere un testo di legge positiva, oppure un trattato pedagogico”.
Così, la proposta di Dossetti, apprezzata da molti altri illustri costituenti, non trovò seguito nella Costituzione, dal quale comunque emerse un significativo “dovere di fedeltà”. Negli anni Settanta Mortati ebbe un ripensamento tardivo, ritenendo che il diritto di resistenza trovi la sua fonte costituzionale non “nella sovranità popolare, ma nei diritti inviolabili”. Dunque, se è vero che non esiste una norma specifica, il diritto di resistenza può ricavarsi dalle ratio di molte norme costituzionali (es. articoli 1,2,3 e 54) perché esprime il principio di sovranità popolare, garantisce la tutela dei diritti inviolabili ed è espressione del dovere di fedeltà alla Repubblica e non di obbedienza alle leggi dello Stato: il dovere di fedeltà alla Costituzione, sancito dall’art.54, comporta il dovere di non obbedire alle leggi che siano in contrasto con essa.
Persino per i militari, infatti, l’art.4 della legge 11.7.1978 n. 382 ha previsto il dovere di disobbedire all’ordine manifestamente illegittimo: “Il militare al quale viene impartito un ordine manifestamente rivolto contro le istituzioni dello Stato o la cui esecuzione costituisce comunque manifestamente reato, ha il dovere di non eseguire l’ordine e di informare al più presto i superiori”.
Il principio dal quale non potere deflettere -principio basilare che deve impedire di ricadere in un giuspositivismo alquanto volgare, più esattamente a un vieto “legalismo etico”, per il quale “la legge è la legge”, al di là di ogni troppo gravosa verifica della sua validità e legittimità-, è che non si deve confondere il dovere di fedeltà alla Repubblica (e alla sua Costituzione) con quello di obbedienza alle leggi dello Stato. Si tratta infatti di concetti ben diversi, non di rado addirittura opposti, e in caso di conflitto apparente, prevale indubbiamente la fedeltà alla Costituzione: ne deriva che l’ordinamento giuridico italiano riconosce il diritto alla disobbedienza civile, con l’ulteriore conseguenza che, trattandosi dell’esercizio del diritto, ove pure, come gli viene imputato, il dott. Rossi, dalla cui vicenda abbiamo qui preso spunto, avesse davvero “spintonato” qualcuno, egli l’avrebbe fatto nell’esercizio di un diritto e, quindi, egli sarebbe scriminato dal reato, in quanto legittima difesa, o stato di necessità, o esercizio del diritto, o adempimento del dovere, o addirittura uso legittimo delle armi, ove mai ve ne fossero state.
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7. Imperatività, illecito costituzionale e nullità delle norme di legge lesive di diritti umani.
Il punto di forse maggiore interesse, che deriva dalle precedenti considerazioni, è che, una volta ammessa come legittima la disobbedienza civile nei confronti della legge costituzionalmente invalida, si viene a denegare il concetto stesso di imperatività della legge, con la conseguenza che la legge incostituzionale va ormai considerata nulla e non solo annullabile, in quanto inidonea a produrre effetti, tanto più allorché vengano in rilievo questioni di violazione del diritto eurounitario, che rendono la legge void, “nulla”, e quindi immediatamente disapplicabile.
La disapplicazione dell’atto normativo in contrasto con il diritto eurounitario è un vero e proprio obbligo giuridico per il giudice; e invero, “è stato escluso che il giudice nazionale -cui spetta assicurare ai singoli la tutela giurisdizionale derivante dalle norme del diritto dell’Unione e garantirne la piena efficacia- debba dover chiedere o attendere l’effettiva rimozione, a opera degli organi nazionali all’uopo competenti (nell’ordinamento italiano la Corte costituzionale), delle eventuali misure nazionali che ostino alla diretta e immediata applicazione delle norme dell’Unione”[13]
Considerazioni non dissimili emergono con riferimento alle leggi che violano i diritti fondamentali e umani, dato che, a fronte della lesione di diritti umani, il velo formale legislativo, tanto più se in forma di decretazione d’urgenza, non viene ad assumere la benché minima rilevanza, sicché nemmeno v’è necessità di elevare questione di costituzionalità, trovandoci noi di fronte a norme puramente e semplicemente nulle, destinate a essere ignorate e disapplicate, in quanto frutto di abuso legislativo (del resto, non ci sarebbe bisogno di sollevare una questione di costituzionalità, per puramente e semplicemente disapplicare e ignorare una norma che legalizzasse esplicitamente la tortura). Diversamente occorrerebbe ritenere che il diritto umano possa essere leso con leggerezza medio tempore, rivelando con ciò che l’ordinamento interno non prevede alcun “ricorso effettivo” a tutela dei diritti umani ai sensi dell’art. 13 CEDU.
Occorre infatti considerare che, in sede CEDU, il velo o lo schermo del carattere formalmente legislativo dell’atto è privo totalmente di rilevanza giuridica, allorché appunto si tratta di salvaguardare diritti umani, e allora è chiaro che, ai sensi dell’art. 13 citato, ciò deve indefettibilmente avvenire anche nell’ordinamento interno.
Infatti, l’art. 13 CEDU così dispone: “Diritto a un ricorso effettivo. Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali”, e non si distingue tra “funzioni ufficiali”, tal per cui la decretazione d’urgenza o la legge sarebbero esenti da un siffatto sindacato diretto, giacché, a quel punto, l’attività di normazione non è altro che un fatto illecito, dal punto di vista del diritto interno, ex art. 2043 c.c.. E invero, per la giurisprudenza CEDU, “ It is open to a person to contend that a law violates his or her rights, in the absence of an individual measure of implementation, if he or she is required either to modify his or her conduct or risks being prosecuted or if he or she is a member of a class of people who risk being directly affected by the legislation” (Tănase v. Moldova [GC]; Michaud v. France; Sejdić and Finci v. Bosnia and Herzegovina [GC]): vale a dire che una norma di legge è immediatamente impugnabile ogni qualvolta determini una lesione immediata sui diritti, o anche solo costringa a modificare i comportamenti dei cittadini a pena di una qualche forma di sanzione, il che è quanto certamente avviene nel nostro caso, dato che la normazione in oggetto, anche nella sua qualità di pretesa legge-provvedimento, impatta immediatamente sulle condotte delle persone, imponendo loro immediati significativi mutamenti in tutte le attività minimali della vita quotidiana. E si noti che il caso Bosnia and Herzegovina riguarda nientedimeno che una norma costituzionale, la quale pure quindi, quando si tratta di diritti umani, può costituire oggetto di sindacato diretto e immediato.
Emerge altresì un altro concetto di recente elaborazione, quello di illecito costituzionale, il quale consente di superare l’obiezione che, per tutelare un diritto umano o fondamentale, si debba attendere la sua specifica lesione da parte di un atto puntuale applicativo, e non si possa invece reagire immediatamente nei confronti dell’atto normativo.
La tesi, secondo la quale l’atto lesivo di rango legislativo non sarebbe immediatamente sindacabile nel suo ledere direttamente diritti, dovendosi attendere gli atti suoi applicativi, risulta, oltre che un’indebita trasposizione dei principi del processo amministrativo al processo civile, assurda nella pratica, dato che, immaginando che la norma lesiva vieti la condotta x, e il cittadino quindi, per conseguenza, non compia l’atto x, egli è stato indotto a rinunciare all’azione immediatamente dall’atto di rango normativo, non da un inesistente atto applicativo, dato che tutta la sua giornata di vita diventa un “atto applicativo” dell’atto normativo -tamponarsi, e allora l’applicatore è il farmacista; essere estromesso da un ristorante, e allora l’applicatore è il ristoratore, e così via-, salvo che si tratta di atti informali, non emergenti in atti, ad esempio, dell’autorità sanitaria o similari, dato che se io mi attengo all’atto normativo pur lesivo, rispettandolo essendo io un “buon cittadino”, tuttavia convinto in cuor mio di star subendo una lesione a un mio diritto umano o fondamentale, non per questo si può sostenere che io abbia prestato acquiescenza, anche perché il diritto umano e fondamentale è irrinunciabile, inalienabile e imprescrittibile: semplicemente non sto ricorrendo ad alcuna forma di trasgressione, e nemmeno di “disobbedienza civile”, ma è assurdo che un giudice possa dirmi che io per tutelare un mio diritto umano e fondamentale debba necessariamente trasgredire la legge, o praticare la “disobbedienza civile”, pur essendo questa, come si è visto, un diritto protetto dall’ordinamento, per poi attendere l’atto repressivo e reagire in via giudiziaria nei confronti di questo, in quanto sanzione della mia trasgressione -alla quale non sono certo tenuto- o alla mia disobbedienza civile -alla quale pure non sono tenuto-. In altri termini, l’atto applicativo in senso formale potrebbe anche non arrivare mai, e allora io sarei deprivato per sempre di una tutela nei confronti della lesione dei miei diritti umani e fondamentali, in violazione della loro irrinunciabilità, inalienabilità e imprescrittibilità.
Siffatti principi trovano oggi (quantomeno) conforto giurisprudenziale nell’ordinanza della Cassazione a Sezioni Unite 12 ottobre 2021 n. 36373, la quale, pronunciandosi su regolamento di giurisdizione, ha riconosciuto la giurisdizione del giudice ordinario, che ha così statuito con riferimento a “un procedimento sommario di cognizione contro la Presidenza del Consiglio dei ministri, il Ministero dell’economia e delle finanze e l’Agenzia delle entrate, per sentir dichiarare lesi i propri diritti di eguaglianza, non discriminazione e pari contribuzione a parità di reddito, come conseguenza dell’emanata legge 17 dicembre 2019, n. 160, (legge di bilancio per il 2020), art. 1, comma 692” con riferimento a una questione di carattere tributario, “(s)tante l’illegittimità della limitazione istituita col regime fiscale richiamato, per contrasto col Trattato UE, con la Carta fondamentale dei diritti UE, con gli artt. 2, 3, 53 cost., con le previsioni della Carta delle nazioni unite, col protocollo 12 . della CEDU e con le norme del Patto internazionale dei diritti civili e politici di New York, i ricorrenti hanno chiesto al tribunale di condannare le amministrazioni convenute al risarcimento dei danni, affermando che “la predisposizione” o “la mancata rimozione con decreto-legge della disposizione de qua ed il mancato adoperarsi ( .. ) anche da parte dell’Agenzia delle Entrate prima e dopo l’approvazione della L. di bilancio 2020 costituiscono fatti illeciti ex art. 2043 cod. civ. o comunque integrano l’inadempimento “di obblighi stabiliti dall’ordinamento comunitario, costituzionale ed internazionale”.
L’Avvocatura dello Stato aveva chiesto che, in sede di regolamento di giurisdizione, fosse dichiarato il difetto assoluto di giurisdizione di fronte a simili domande, ma la Cassazione a Sezioni Unite ha respinto tale prospettazione, con le seguenti argomentazioni: ”I ricorsi pongono alle Sezioni unite una questione di giurisdizione su domande tese a far accertare il diritto al risarcimento del danno per illegittimo discriminatorio esercizio della potestà legislativa afferente al trattamento fiscale di cui all’art. 1, comma 57, lett. d-ter, della legge n. 190 del 2014, come modificato dall’art. 1, comma 692, lett. d) della I. n. 160 del 2019, o comunque per l’omessa modifica di tale trattamento. Il trattamento sarebbe invero in contrasto con principi eurounionali e lesivo di un diritto fondamentale tutelato costituzionalmente, qual è quello di eguaglianza e non discriminazione in materia tributaria. Secondo la prospettazione degli attori, sia nella predisposizione della detta norma, sia e ancor più nella non attivazione per il “mancato ritiro o stralcio” della medesima, sarebbe da rinvenire a carico dei convenuti il fatto illecito determinativo del danno risarcibile ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., per lesione del diritto fondamentale richiamato.
Così inteso l’oggetto della domanda…, è da affermare che la causa appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario. Il bene della vita unicamente dedotto in giudizio attiene al danno derivato dalla “predisposizione” e “presentazione” del d.d.l. di bilancio poi approvato, il cui contenuto si dice illegittimo, e dal “mancato adoperarsi” delle autorità convenute per la successiva rimozione o modifica… Rispetto alla pretesa risarcitoria, che costituisce (come detto) il vero e unico oggetto del giudizio instaurato dai ricorrenti dinanzi al tribunale di Messina, non è fondatamente richiamabile il concetto di difetto assoluto di giurisdizione, giacché codesto propriamente attiene all’impossibilità di esercitare la potestà giurisdizionale con invasione della sfera attributiva di altri poteri dello Stato o di altri ordinamenti dotati di autonomia, in controversie direttamente involgenti attribuzioni pubbliche di questo tipo, come tali neppure astrattamente suscettibili di dar luogo a un intervento del giudice. Laddove la postulazione riguardi invece i fondamenti di una pretesa risarcitoria, la lite per definizione sovviene alla materia dei diritti soggettivi, e a fronte di affermati \I diritti fondamentali, costituzionalmente protetti, non può escludersi il diritto di azione, anche se la lesione sia prospettata come dipendente dall’esercizio asseritamente illegittimo di una potestà pubblica o dalla predisposizione, presentazione, o mancata modifica di un atto legislativo. Né la domanda, che gli attori hanno avanzato dinanzi al tribunale di Messina, è suscettibile di esser considerata come astrattamente e assolutamente improponibile per ragione di materia o di regolamentazione normativa. L’improponibilità assoluta è stata in effetti correlata, in alcuni arresti di questa Corte, al caso della domanda concernente un diritto non configurato neppure in astratto a livello normativo, con conseguente integrazione di un ulteriore caso di difetto assoluto di giurisdizione sindacabile in sede di regolamento preventivo (v. Cass. Sez. U n. 6690-20 in tema di proposizione, in sede civile, di azione risarcitoria diretta contro un magistrato per fatti commessi nell’esercizio delle funzioni giudiziaria). Tale ipotesi è tuttavia configurabile in rapporto alla materia, quando cioè la domanda giudiziaria non è conoscibile, in astratto e non in concreto, da alcun giudice, sicché quest’ultimo è appunto tenuto ad “arretrare” rispetto a una materia che non può formare oggetto di cognizione giurisdizionale (arg. da C. cost. n. 6 del 2018; cfr. pure Cass. Sez. U n. 8311-19). Anche considerandosi una sì rilevante estensione del concetto di improponibilità assoluta, perché concernente una materia determinativa di arretramento giurisdizionale, è decisivo constatare che esula da esso la fattispecie in esame, in cui si discute dell’azione risarcitoria comune, avente base nell’art. 2043 cod. civ. in sé considerato. I fondamenti di tale azione presuppongono sempre una valutazione in concreto, che solo il giudice dei diritti è legittimato a svolgere.
Invero l’azione non può dirsi esclusa neppure evocando la natura politica dell’atto legislativo, essendo nella specie rivolta agli asseriti promotori dell’atto (la Presidenza del Consiglio dei ministri, il Ministero dell’economia e l’Agenzia delle entrate). Gli attori hanno assunto che la norma della legge di bilancio sopra citata sia difatti lesiva per la disciplina che ne è derivata. E non hanno messo minimamente in discussione l’ovvia attribuzione dell’atto all’esercizio della sola afferente potestà. Né hanno inteso affermare che il giudice, con invasione dei meccanismi di responsabilità politica, abbia direttamente a sindacare la maniera con cui la potestà è stata svolta. Hanno invece postulato che la citata norma della legge di bilancio per il 2020, ove non disapplicata, debba essere ritenuta illegittima costituzionalmente perché discriminatoria o perché in contrasto col diritto comunitario. E in questa prospettiva hanno assunto di aver diritto al risarcimento del danno da illecito civile nei confronti delle autorità che di quella legge di bilancio hanno curato la presentazione e concorso all’approvazione. A fronte di una domanda del genere il giudice non è chiamato a invadere la funzione sovrana (tipico caso di difetto assoluto di giurisdizione: v. per esempio Cas. Sez. n. 16751-06 per il cd. “signoraggio” monetario; Cass. Sez. Un. 4190-16, per il caso dell’impugnazione degli atti di costituzione di commissioni legislative di assemblee regionali; Cass. Sez. U n. 8157-02, per la conduzione di ostilità belliche), ma a stabilire se la evocata fattispecie integri o meno l’illecito civile denunziato. Ne deriva che l’azione postula la giurisdizione del giudice ordinario quale giudice naturale dei diritti fondamentali, non interferendo con potestà altrimenti riservate”.
Fin qui la Cassazione a Sezioni Unite; nel caso che stiamo qui esaminando tali principi valgono a fortiori, dato che, come si è già sottolineato, nella specie si tratta di lesione di diritti, non solo “fondamentali”, ma specificamente “umani”, sicché vale il precetto di cui all’art. 13 CEDU, per il quale la forma dell’atto, quale che sia, non rappresenta velo e schermo impeditivo alla nullificazione della legge lesiva dei diritti umani, stante la vigenza assoluta del principio del “ricorso effettivo”.
Sicché, in conformità con tale pronuncia delle Sezioni Unite, può venire immediatamente sindacata l’attività di normazione e circostante la normazione in quanto attività materiale e fatto illecito ex art. 2043, produttivo di danno ingiusto e risarcibile[14]. In definitiva, collocando i diritti fondamentali e umani al vertice della gerarchia delle fonti, il che viene consentito de plano dall’essere divenuti detti diritti atto dell’Unione Europea con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, ossia la cosiddetta Carta di Nizza, finisce nei fatti e nella buona sostanza con venire autorizzato, anche nel nostro ordinamento, il sindacato diffuso della validità delle leggi, almeno appunto tutte le volte che vengono in rilievo diritti fondamentali, ma constatando però che, con un’acconcia impostazione delle domande giudiziali, i diritti fondamentali vengono in realtà in rilievo piuttosto sovente.
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8. Conclusione. Il diritto umano e fondamentale come autotutela nell’ambito della dottrina della sovranità popolare.
Occorre muovere da una premessa fondamentale, vale a dire che il diritto umano esprime primariamente la dignità della persona, è questo il valore originario, che la teorica e la normativa sui diritti umani intende salvaguardare, sicché si staglia come principio fondativo di qualsiasi ordinamento civile contemporaneo quello che possiamo esattamente denominare principio di dignità[15]
Conseguentemente, l’art. 1 della Dichiarazione così dispone: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. L’art. 2 scolpisce il principio di non discriminazione: “Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione”.
Gli stessi principi di eguaglianza di fronte alla legge e di non discriminazione sono, come è noto, riaffermati dalla Carta di Nizza agli artt. 20 e 21 e dall’art. 3 Cost.: il fatto che si trovino asseriti nella Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea assume particolare rilievo sotto il profilo formale, dato che, come si è già sottolineato, in quanto atto eurounitario, essa consente la diretta disapplicazione anche degli atti di rango primario nella specie operanti o richiamati, il che evidentemente non trova eccezione in sede cautelare. Del resto, già l’art. 2 del Trattato dell’Unione Europea così aveva disposto: “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini. Non casualmente, tuttavia, la stessa Carta di Nizza riafferma il principio di dignità al proprio primo articolo: “Dignità umana. La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata”, laddove nella specie essa è oggetto di scherno.
Merita poi che ci si soffermi sull’art. 2 della nostra Costituzione, che nella sua prima parte sancisce com’è noto che “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”, ed è rilevante ricordare l’importanza al riguardo l’”Ordine del giorno Dossetti” in Commissione dei 75, a proposito del carattere antecedente della personalità umana rispetto alla pretesa dello Stato al proprio diritto positivo, che non può essere inteso come atto di “concessione” di diritti alla persona, dato che questi diritti preesistono all’ordinamento dello Stato[16].
Ora, in tale positivizzazione del diritto naturale, di fonte cristiana ma anche liberale, il diritto della persona è antecedente rispetto “ad ogni concessione da parte dello Stato”, sicché tampoco è consentito che lo Stato “revochi” siffatti diritti naturali-positivi, per poi “riconcederli” a proprio grazioso arbitrio o discrezione, per atto primario o amministrativo nemmeno importa, ma naturalmente è più grave che si operi per atto amministrativo, sulla base dell’imposizione coattiva di oneri o condizioni o ricatti o minacce o estorsioni come viceversa è sovente accaduto nel corso della vicenda “Covid-19”.
Senonché, una volta posto il duplice principio del primato della dignità umana, e del carattere antecedente di detta dignità, e dei diritti umani e fondamentali che ne conseguono, nei confronti della pretesa dello Stato alla normazione, che ne è pretesa subordinata, vien da chiedersi che senso abbi lo stabilire solennemente a ogni livello, internazionale, sovranazionale e interno tali principi, collocandoli al vertice della gerarchia delle fonti, per poi negare al cittadino il diritto di autotutela al riguardo, lasciando quei diritti fondamentali in balìa delle autorità. Se si ammette che il cittadino -l’”uomo”- ha pieno diritto di disobbedire alle leggi “ingiuste”, vale a dire lesive di quei principi primari, che sono altresì principi di diritto positivo, con ciò si sta anche affermando il pieno diritto del cittadino e dell’”uomo” a esercitare in via diretta di autotutela quei diritti, ossia anche opponendosi attivamente all’autorità, nei confronti della quale il diritto di resistenza può diventare addirittura routinario, ossia ogni qualvolta il diritto fondamentale e umano sia posto a repentaglio.
In tal modo, il principio di dignità della persona si viene perfettamente a saldare con quello di sovranità popolare, di cui all’art. 1, c. 2, Cost. Che cosa significa che la sovranità appartiene al popolo? In particolare, quale più precisa nozione si cela dietro il termine “popolo”? Secondo l’Enciclopedia filosofica, anzitutto, “Popolo è il complesso delle generazioni, passate presenti e future, le quali, attraverso i vincoli della sudditanza o della cittadinanza, si trovano giuridicamente organizzate nello Stato… esprime un concetto giuridico-politico fondato sul rapporto stabile e duraturo che lega i cittadini allo Stato cui appartengono… Spesso il termine popolo viene ristretto a indicare solo le classi inferiori della società, e opposto così a borghesia”[17].
Se dunque dobbiamo assumere che “popolo” sia un concetto politico-giuridico, è utile vedere come il concetto stesso sia stato elaborato dai giuristi, a partire da Hans Kelsen, il quale, come è noto, è stato anche un importante scienziato politico. Ora, l’elemento saliente è che Kelsen, per parlare di che cosa sia un “popolo”, introduce il tema a partire, forse a sorpresa, dall’idea di libertà[18], oltretutto fornendo di questa una nozione particolarmente attraente, per quanto poi l’Autore ne tragga conseguenze non condivisibili: “È un uomo come me, siamo uguali, che diritto ha dunque di comandarmi?”[19].
Non siamo di fronte a una delegittimazione del comando in nome dell’uguaglianza, ma all’inverso: siamo eguali in diritto in quanto tu non sei legittimato a comandarmi, né a impormi unilateralmente obblighi giuridici o morali[20]. Il fondamento del divieto è libertario e non egualitario, tuttavia ne deriva che siamo pari nell’essere privi di alcun diritto, giuridico o morale, a coartare l’altro in nome delle proprie convinzioni. Ciò non significa che le persone siano davvero in un qualche senso “eguali”, salvo che le differenze esistenti tra loro, che sono le più ampie nei limiti della simiglianza umana, non sono in grado di legittimare il dominio dell’uno sull’altro.
Da questa premessa, forzando appena il pensiero di Kelsen[21], scaturisce il concetto di “popolo”, l’entità all’interno della quale non si conoscono supremazie, ma solo eguaglianze in diritto; che, in questo modello idealizzato, vengono munite di una costituzione, quale strumento posto ad affermazione e garanzia di questa verità, cioè del fatto che, in prima battuta, i diritti del “popolo” non sono altra cosa rispetto ai diritti individuali. Si ravvisa un nesso profondo nella triade diritti soggettivi individuali-costituzionalismo-sovranità popolare, e la sua origine viene individuata nella libertà di coscienza e religiosa[22].
L’idea che i diritti del popolo sovrano non siano altri dai diritti individuali ci viene offerta sopra un piatto d’argento dalla Dichiarazione dei diritti della Virginia del 1776: “Tutto il potere è nel popolo”, ci dice la seconda sezione, non senza però che la prima abbia precisato che “Tutti gli uomini sono per natura egualmente liberi e indipendenti e hanno alcuni diritti innati”[23], e non si tratta di una mera giustapposizione di elementi lockeani e rousseauiani, come si ritiene comunemente, ma di qualcosa di nuovo e originale[24]: il “popolo” è l’insieme di questi uomini, che lo costituiscono portando con sé quel bagaglio di diritti, che vengono versati senza rinunciarvi, a fondamento dell’esercizio del loro potere politico: il diritto individuale, una volta conferito nel collettivo, trasmuta in potere di natura politica, non per negare o superare il diritto individuale stesso, ma per esaltarlo in comune[25]. La storia antica del costituzionalismo inglese corrobora ex ante questo approccio, dato che il tema, in quegli autori, è ricorrente[26].
Senonché, questi diritti, che il singolo mette in comune per formare il “popolo”, non sono eteree astrazioni, ma dati di forza, oppositivi, pretensivi e normativi[27]; e allora viene in mente Spinoza, per il quale l’individuo entra in società con integro il suo ius naturale, nutrito dal complesso delle sue facoltà naturali materiali, all’esercizio di una parte delle quali rinuncia in nome della reciprocità, scambiandosi la corrispondente astensione dal ricorso alla violenza, benché le reputazioni e le forze restino differenziate; questo modello va corretto in un punto, ossia quando vede lo Stato come formazione endogena e non esogena rispetto alla società civile, chiave di lettura edulcorata delle dottrine del “contratto sociale”, laddove è invece vero che lo Stato sorge ab extrinseco attraverso un’imposizione (militare o simili) da parte della “banda vincente”.
Il fatto è che, se gli individui divengono “popolo”, ognuno recando seco l’intero armamentario delle proprie pretese, il fatto che si tratti di “popolo” non seda i conflitti interindividuali, che possono essere anche molto profondi, sicché emerge l’ambivalenza del concetto, individuata dai costituzionalisti, consistente in un’oscillazione tra i due poli della pluralità e dell’unità[28].
Si insinua qui un paradosso, una circolarità, perché il popolo preesiste allo Stato[29], ma è, in quanto concetto costituzionalistico, un elemento, tanto attivo –dato che gli si riconoscono poteri-, quanto passivo –in quanto assoggettato-, dello Stato stesso. Il popolo preesiste perché in assenza di Stato non v’è mera moltitudine indifferenziata, se si suppone, contra Hobbes[30], che le persone siano in grado di autogovernarsi e di porre spontaneamente diritto, e quindi è di già concetto giuridico, anche in assenza di Stato: lo Stato non è la precondizione per l’esistenza di una società civile in funzione, ma interviene a cose fatte, sconvolgendole, così come il popolo non cesserebbe di essere tale, se riuscisse a organizzarsi in forma non statuale.
L’ordinamento dello Stato, quindi, opera semmai un accertamento (di un ente previamente esistente) costitutivo (nel senso che innova quanto al suo statuto formale-sostanziale) del fatto che un popolo sia immanente, sussumendo gl’individui in un cartello, giuridicamente rilevante anche dal suo punto di vista, conferendogli in qualche misura valenza interna, fermo restando il suo costituire ente (anche) esterno; più precisamente, questo “popolo di Schrödinger” si propone ai nostri occhi simultaneamente in quanto fatto bruto e in quanto fatto istituzionale, interfaccia con se stesso, nel momento in cui è altro dallo Stato sussumente, ma al contempo lo fonda con la sua acquiescenza de facto nei confronti dei poteri reali, siano essi formalizzati in organi dello Stato, ovvero comunque operanti nella sostanza attorno a essi.
Il popolo di Schrödinger è pero anche popolo che consente all’ordinamento di superare il teorema di incompletezza di Gödel, dato che è l’elemento umano a conferire completezza all’ordinamento stesso, radicandolo nel mondo reale, ordinamento che altrimenti sarebbe immateriale –di sole “norme”-, quindi vacuo e privo di fondazione, se il fatto istituzionale presuppone comunque un fatto bruto sottostante; il popolo, in quanto insieme di soggetti, che vive sotto un ordinamento giuridico, non si identifica con quell’ordinamento –anzi, esprime una tensione nei suoi confronti-, ma ne è un presupposto costitutivo, in quanto questo sarebbe privo di alcuna vitalità, ove privato dell’elemento personale, che è il destinatario in tensione del conato di provocare l’assoggettamento; ma anche della sua incorporazione formale da parte dell’ordinamento, che poi si rialimenta nella consuetudine dell’acquiescenza nei suoi confronti, che gli conferisce effettività e stabilità.
In termini realisti e di public choice, il popolo è il fruitore coatto dei servizi “forniti” dallo Stato, l’insieme dei dominati, salvo che all’interno del popolo vi sono contraddizioni, per cui una sua componente è parte dei dominanti: “popolo”, qui, è concetto dialettico e plurale, e la sua unità è formale, ma non solo, dato che viene costituita in potere anche materiale dello Stato. Tutto ciò è ben chiaro alla nostra dottrina costituzionalistica, dato che l’art. 1, c. 2, va letto insieme alle altre norme, che riconoscono le libertà fondamentali, i diritti associativi, e così via, che fanno del “popolo” una nozione estremamente frastagliata, sicché la sua “sovranità” viene esercitata anzitutto uti singuli, interagendo con gli altri, nella società civile, nella comunità e nel mercato, prima ancora che nelle relazioni con lo Stato persona[31].
V’è però un momento in cui il “popolo” viene ricondotto ad unità, ed esplicitamente costituito ex lege in cartello, suo ente esponenziale, facente parte dello Stato-ordinamento: quello della sua sussunzione in corpo elettorale (e referendario, etc.), consentendo, o rendendo necessario, che il popolo si esprima attraverso un atto collettivo, in grado di formulare una scelta altrettanto collettiva: il voto.
Ora, attraverso il voto, il corpo elettorale si rende partecipe della coercizione, a ognuno viene consegnata la propria quota di coazione, ben sì reciproca –anche se intermediata, dal basso verso l’alto e poi dall’alto verso il basso-, ognuno nei confronti degli altri; ma anche, si badi bene, nei confronti del ceto politico, verso il quale viene manifestata la capacità-potestà di esprimere, se non un vero e proprio indirizzo politico netto, quantomeno un pre-indirizzo politico, insito nel risultato elettorale, che aspira a costringere e conformare il più che sia possibile la condotta futura del ceto politico.
La sovranità popolare non è un mero flatus vocis, dato che esprime quantomeno il concetto che il ceto politico deve agire nell’interesse del popolo, e ne viene sindacato per come lo fa; ma una volta che questo, costituito in corpo elettorale, diviene un potere dello Stato, il suo destino formale-sostanziale è di dover essere inserito nella dottrina dei checks and balances: è ovvio, infatti, che, in termini realisti, il popolo, essendo assoggettato dai poteri reali, che si incarnino nello Stato o premano con forza su di esso, non comanda davvero, ma esprime quantomeno un valore di controllo, e quindi di contrappeso nei loro confron, tanto attraverso la coercizione del voto, quanto in forma diffusa, individualmente, in forma associata, o variamente organizzata; e comunque sempre in quanto opinione pubblica, costituita dalla libertà di manifestazione del pensiero di ciascuno, che, in quanto diritto fondamentale, consente anche le espressioni critiche più estreme ed eterodosse, quali laboratori di alternativa, oltre che base per stili di vita differenziati, sicché all’opinione si venga ad affiancare il fatto.
La sovranità post-classica dai forti connotati difensivi e oppositivi, ci restituisce quindi un popolo, diciamo così, neo-classico, nel senso di ancorato al principio originario di libertà individuale, in assenza della quale non si dà il collettivo “popolo” nell’accezione accolta –insieme di uomini liberi ed equiordinati-, come raccolta di “sovrani” in permanente esercizio della propria autonomia, garantita eventualmente anche nei confronti del soggetto personificato “popolo”, che, in quanto tale, è “sovrano costituzionale” e non assoluto –ciascun cittadino è tale-, dati i limiti entro i quali è costretto dallo stesso art. 1, c. 2; limiti, dei quali fanno parte anzitutto le libertà fondamentali, con la conseguenza che, se il popolo è in sé nozione plurale, la sovranità dell’individuo[32], ne viene ulteriormente rinforzata, in quanto esito di una duplice fonte: il “popolo”, appunto, e la singola persona, che è sovrana sia in quanto atomo del popolo, sia in quanto individuo dotato di diritti, se del caso anche contro il (resto del) “popolo”: se si vuole prendere una metafora dal secondo emendamento, si può dire che l’individuo sia duplice sovrano, tanto in quanto “armato” personalmente, tanto in quanto parte di una “milizia” armata.
Ebbene, io propongo di estendere la legittimazione a porre diritto a ciascuno degli individui, e ciò sulla base di principi fondano, in nome dell’autotutela rispetto al diritto umano e fondamentale, esattamente sulla rottura dell’architrave monopolistica: occorre muovere dall’assioma che ognuno è legittimato a porre individualmente un proprio criterio di condotta, in buona sostanza ognuno pone il suo diritto: v’è evidentemente un elemento “naturalistico” in questo, dato che il monopolio della forza preteso dallo Stato è artificiale, anzi, artificioso, perché quando il filosofo del diritto afferma che il diritto è un fatto umano, sottintende che ciascuno è fisiologicamente fonte di diritto, ciascuno è in grado di fissare propri criteri di condotta e seguirli razionalmente, e quei criteri sono il suo proprio diritto positivo individuale, che è l’opposto del diritto, o privilegio, “concesso” dallo Stato. Il principio giuridico riconosce così tale facoltà individuale di porre diritto, assegnando all’individuo la più ampia sfera riservata di decisione, da confrontarsi poi con quella degli altri, al fine di pervenire al migliore equilibrio delle forze, dimodoché la convenzione fondamentale consiste in una rinuncia reciproca all’uso della forza bruta, per cui di fatto ognuno acquista dall’altro la sua astensione dall’uso della forza, e questo è il senso ultimo di un contratto e di un libero scambio nel mercato: io mi astengo dal sottrarti forzosamente il pane, senza darti il denaro, e tu ti astieni dal sottrarmi forzosamente il denaro necessario ad acquistare il pane, senza però darmi il pane, e queste rinunce avvengono in nome di un chiaro principio di reciprocità.
Secondo Habermas, ad esempio, sovranità popolare –che il filosofo intende come foriera di implicazioni procedurali- e diritti umani, aventi invece valore intrinseco, concorrono nel fungere da fondamento morale di legittimazione nel diritto contemporaneo[33]. Emerge qui l’estrema difficoltà di fondare moralmente la coercizione da parte del soggetto monopolista, che è “sovrano” nel classico senso di esercitare supremazia sui sottoposti; ora, la proposta di conferire, attraverso la tecnologia dei diritti umani, legittimazione a questo soggetto e a questa attività, sia pure nel rispetto di quei vincoli, rischia di divenire mera formula politica della routine legittimante; laddove al contrario i diritti umani esplicano una propria effettiva valenza solo, all’opposto, da una prospettiva, non già di legittimazione, ma di delegittimazione del potere reale, il quale si nutre consustanzialmente di violazione, non di rispetto, e men che meno di attivo perseguimento –o di risarcimento delle relative lesioni-, di quegli stessi diritti umani, che, secondo Habermas, o in genere gli ottimisti, dovrebbero fondarlo.
Il diritto appartiene all’ambito della forza, sia pure, certo, adeguatamente argomentata ed esercitata, e allora la morale gioca un ruolo; ma un ruolo subordinato, se la Grundnorm dell’ordinamento è anzitutto empirica e quindi fondata soprattutto sull’energia fisica, per quanto una data “morale” –rectius: un’ideologia politica- possa poi essere invocata a sostegno di un certo modo di intendere l’uso della forza in luogo di un altro; sicché fondamento dall’alto -il “diritto umano” situato al vertice nella gerarchia formale delle fonti, anche in quanto munito del notevole vantaggio di essere indisponibile e imprescrittibile- e fondamento dal basso -essendo la forza di cui ognuno dispone la base stessa del sistema- si ricongiungano, in una gerarchia delle fonti –che elide come nulla (void) tutta la normativa interposta, che diviene così resistibile legittimamente-, tale anche in senso funzionale: un ordinamento, infatti, si radica nel fatto, non su principi astratti o sospesi nel vuoto, che possono semmai essere invocati a legittimazione, ex ante o ex post; ma che sono inidonei, da soli, a fondare un ordinamento che miri a livelli adeguati di effettività.
Orbene, rappresentando la forza la risorsa pandespota per eccellenza –tutti ne sono dotati, come di ragione e di giudizio-, il diritto umano, se non vuole esaurirsi in una validità moralizzata meramente enunciata e di copertura, va inteso correttamente come atto di trasferimento, devoluzione e riconoscimento della piena capacità giuridica e normativa a tutto tondo, compresa la forza indispensabile a farlo valere, in capo a ciascuno, ognuno costituente al contempo culmine formale e fondamento funzionale dell’ordinamento. Siamo di fronte a una duplice meta-norma, simultaneamente in fase discendente e ascendente, formale ed empirica, sicché l’uomo astratto e l’uomo reale si riappacificano, divenendo reciprocamente meta-norme di una stessa realtà, nella quale ognuno è in grado di pretendere attivamente, titolare com’è della competenza di emanare individualmente diritto; sicché viene travolto, e nei fatti radicalmente messo in discussione, il monopolio della forza legittima, rivendicato dall’impresa dominante e abusante, ossia lo Stato[34], istituzione che simula la concentrazione coerente di tutte le forze, quando queste, in verità, sono diffuse, ed eventualmente anche di segno contraddittorio.
Il diritto umano diviene così meta-diritto, in quanto autorizzazione al singolo di porre diritto (il diritto umano come norma secondaria sulla competenza universale), sicché questa sua proprietà naturale, tale in quanto connessa strettamente all’azione, riceve il suggello della sua propria sussunzione formale. Una volta che l’individuo giunga a esprimere la duplice grundnorm ideale-materiale, diventa pertanto diritto l’autotutela, e la norma di chiusura ci viene fornita, attraverso il canone ermeneutico dell’interpretatio contra stipulatorem, dal combinato disposto degli artt. 20, c. 2, e 30 della Dichiarazione universale dell’ONU; i quali, letti uno dopo l’altro –il primo sul divieto di appartenenza obbligata a un’associazione, evidente manifestazione della libertà di coscienza, il secondo sul divieto di interpretazioni restrittive e limitative dei diritti da parte degli Stati-, producono in effetti una certa impressione[35].
Ne conseguono, svincolando l’irripetibile persona, che ognuno di noi è, dall’apparteneza necessaria all’”associazione” Stato, la divisione della sovranità tra tutti gli individui (sovranity share), nonché la distribuzione in capo a ciascun cittadino della sua quota di coercizione comune, oggi assorbita dallo Stato, che la assegna però in quote diseguali, con la conseguenza che quella che dovrebbe essere una res communis è in realtà una res fortium; solo sgombratone il campo, di quella coercizione può farsi poi un mercato su base paritaria, consistente nella trattativa diffusa, anche mediante giochi taciti, sulla reciproca astensione dall’uso della forza, sulla contrattazione delle reciproche esternalità, riconnettendosi così al fondamento originario libertario ed egualitario dello stesso concetto di popolo, e ripercorrendo la strada a ritroso verso il recupero individuale della libertà; e, se si vuole, della stessa sovranità, che a questo punto identifica con franchezza la sovranità dell’individuo su se stesso.
Il che rilegittima, anche in termini quindi di sovranità ripartita, la stessa resistenza individuale, il diritto di ciascuno di costituirsi in ordinamento giuridico proprio, associandosi con gli altri solo in nome della libera scelta, ricongiungendosi alfine il substrato empirico e materiale, enfatizzato icasticamente dallo spirito del secondo emendamento, con quello formale e ideale dell’autonomia giuridica e morale. Ne deriva che non v’è più necessità di fondare la resistenza individuale, in quanto legittima, su ragioni “morali” contrapposte a quelle del diritto, essendo sufficienti quelle strettamente giuridiche, vale a dire anche dal punto di vista interno al sistema; ossia dal fatto che le libertà fondamentali e i diritti umani, in quanto ormai diritto positivo, sono da collocarsi al vertice della gerarchia delle fonti, tanto in senso formale, quanto –questa è la sfida- in senso funzionale, siccome incarnati immediatamente dalla forza e dalla capacità d’agire della persona: occorre cioè, senza alcun paradosso, che l’individuo “istituzionale” sia collocato tanto al vertice della gerarchia delle fonti con i suoi “diritti”, quanto, come agente nel mondo reale, al rango più basso –quello del “provvedimento”- , ma funzionalmente superiore, con la sua propria azione, quale atto auto-applicativo del rango formale supremo.
La conseguenza è di rendere così invalida l’intera normativa interposta e di rango intermedio, con l’implicazione di autorizzare la disapplicazione diffusa di questa da parte dell’individuo titolare del “diritto umano” a tutto tondo, “azionabile” in ogni modo, ad esempio pretendendo il risarcimento per la lesione di quel dato di capitale umano, che è rappresentato ex negativo dall’istituto del danno esistenziale; il che rende come si diceva superflua l’invocazione a questi fini di una qualsiasi opinabile “morale”, o di alcun giusnaturalismo di sorta, che sia altro dal seguire la propria inclinazione ad agire in un modo o nell’altro, in accordo a principi propri, sempre punendo gli impedimenti: sicché la libera sperimentazione individuale, essendo reciproca, si riveli poi fonte di esternalità idealmente positive l’un per l’altro, in definitiva un sincero bene pubblico, anche per la considerazione pratica che il ricorso alla violenza può essere molto costoso.
Dimodoché il potere normativo sia imputato e riassegnato alla persona quale effusione orizzontale sua, espressione della libera e proficua interazione con l’altro, impedendo che, al contrario, quel potere sia oggetto di ablazione, separato dalla persona e, così, impiegato verticalmente, dallo Stato o comunque dall’”autoritario”, quale arma letale contro di lei.
[1] Cfr. Cassazione Civile Sez. Unite, ordinanza 28 maggio 2015 n. 11131.
[2] Cfr. Guido Greco, L’accertamento autonomo del rapporto nel giudizio amministrativo, Milano, Giuffré, 1981.
[3] Cfr. Cons. Stato sentenza n. 6288 del 14 settembre 2021.
[4] Cfr. C.d.S. sez. VI 20.4.2000 n. 2443; C.d.S. 2953/2004; 2307/2004 e 396/2004.
[5] “Articolo 41 Diritto ad una buona amministrazione 1. Ogni individuo ha diritto a che le questioni che lo riguardano siano trattate in modo imparziale, equo ed entro un termine ragionevole dalle istituzioni e dagli organi dell’Unione. 2. Tale diritto comprende in particolare: il diritto di ogni individuo di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che gli rechi pregiudizio, il diritto di ogni individuo di accedere al fascicolo che lo riguarda, nel rispetto dei legittimi interessi della riservatezza e del segreto professionale, l’obbligo per l’amministrazione di motivare le proprie decisioni”. In dottrina, sia consentito rinviare a Fabio Massimo Nicosia, Attività amministrativa vincolata – “Governo della legge” o “governo degli uomini”, Napoli, Editoriale Scientifica, 2021, ove si evidenzia come siano “perfettamente configurabili diversità di opinioni (…) e conflitti di interesse attorno a un’interpretazione normativa, il che comporta contraddittorio” e quindi necessità di comunicare l’avvio del procedimento prima di provvedere (pag. 93).
[6] Cfr. Mennitto v. Italia, 5-10-2000, Caso n. 33804/96
[7] Transmissibility of SARS-CoV-2 among fully vaccinated individuals, in Lancet, vol. 22, January 2022.
[8] 7. Gli scienziati hanno svolto un lavoro straordinario in tempi record. Ora spetta ai governi agire. L’Assemblea sostiene la visione del Segretario Generale delle Nazioni Unite secondo cui un vaccino contro il Covid-19 deve essere un bene pubblico globale. L’immunizzazione deve essere disponibile per tutti, ovunque. L’Assemblea esorta quindi gli Stati membri e l’Unione Europea a:
7.1 rispetto allo sviluppo dei vaccini Covid-19:
7.1.1. garantire sperimentazioni di alta qualità, solide e condotte in modo etico in conformità con le disposizioni pertinenti della Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano in relazione all’applicazione della biologia e della medicina: Convenzione sulla Diritti umani e biomedicina (STE n. 164, Convenzione di Oviedo) e il suo Protocollo aggiuntivo sulla ricerca biomedica (STE n. 195), e che comprendono progressivamente bambini, donne incinte e madri che allattano;
7.1.2 garantire che gli organismi di regolamentazione preposti alla valutazione e all’autorizzazione dei vaccini contro il Covid-19 siano indipendenti e protetti dalle pressioni politiche;
7.1.3 garantire che gli standard minimi pertinenti di sicurezza, efficacia e qualità dei vaccini siano rispettati;
7.1.4 attuare efficaci sistemi di monitoraggio dei vaccini e della loro sicurezza a seguito della loro diffusione presso la popolazione generale, anche nell’ottica del monitoraggio dei loro effetti a lungo termine;
7.1.5 mettere in atto programmi di indennizzo vaccinale indipendenti per garantire il risarcimento di danni e danni indebiti risultanti dalla vaccinazione;
[9] Cfr. Giandomenico Barcellona, Osservazioni critiche circa l’obbligatorietà del vaccino contro il Covid-19 e riflessioni sui limiti di ammissibilità di sistemi di disincentivazione e dei licenziamenti, in Il diritto sanitario moderno, 2021
[10] Prendiamo dal sito del Ministero della Salute,
Medicinali soggetti a prescrizione medica Sono medicinali che devono essere prescritti obbligatoriamente dal medico.
La ricetta è necessaria perché si tratta di medicinali che:
- possono rappresentare un pericolo, direttamente o indirettamente, anche in condizioni normali di utilizzazione, se sono usati senza controllo medico;
- sono utilizzati spesso, e in larghissima misura, in modo non corretto e, di conseguenza, è probabile che rappresentino un pericolo diretto o indiretto per la salute;
- contengono sostanze o preparazioni di sostanze la cui attività o le cui reazioni avverse richiedono ulteriori indagini;
- sono destinati ad essere somministrati per via parenterale, fatte salve le accezioni stabilite dal Ministero della salute, su proposta o previa consultazione dell’AIFA.
I medicinali soggetti a questo tipo di ricetta riportano sulla confezione esterna la scritta:
“Da vendersi dietro presentazione di ricetta medica”.
Medicinali soggetti a prescrizione medica da rinnovare volta per volta
Si tratta di medicinali che possono determinare, con l’uso continuato, stati tossici o possono comportare, comunque, rischi particolarmente elevati per la salute e richiedono, pertanto, un continuo monitoraggio da parte del medico.
[11] Cfr. Corte cost., sentenza n. 307/1990, cit.; in dottrina, cfr. Alessandro Attilio Negroni, Articolo 32 della Costituzione e superamento delle vaccinazioni obbligatorie, in Forum di Quaderni Costituzionali – Rassegna, 15 giugno 2020, 792 ss.
[12] Cfr. Luca Maria Blasi, La disobbedienza civile in Italia : la fedeltà alla Costituzione prevale sull’obbedienza alla legge, in statominimo.it, 5 maggio 2020; cfr. anche Il diritto di resistenza: percorsi storici e costituzionali di un diritto che c’è ma non si vede, in iusinitinere.it, 11 settembre 2019; per una ricostruzione dei fondamenti storici del tema cfr. il recente Nevio Taucer, La disobbedienza civile – Profili storici e temi attuali, Trieste, Luglioeditore, 2021, che traccia il concetto a partire da Tommaso d’Aquino e dalla necessità, evidenziata dal grande filosofo, che la legge non sia “corruzione della legge”.
[13] Così Gianluca Grasso, La disapplicazione della norma interna contrastante con le sentenze della Corte di giustizia dell’UE, in Corso di perfezionamento in “Il contezioso dinanzi le corti europee”, Seminario del 20 maggio 2016; ex multis, Corte giust. 9 marzo 1978, causa 106/77, Simmenthal, punto 24; 4 giugno 1992, cause riunite C‑ 13/91 e C‑ 113/91, Debus, punto 32; 18 luglio 2007, C‑ 119/05, Lucchini, punto 61; 27 ottobre 2009, C‑ 115/08, ČEZ, punto 138; 19 novembre 2009, C-314/08, Filipiak, punto 81; 22 giugno 2010, C-188/10 e C-189/10, Melki e Abdeli, punto 43; 26 febbraio 2013, C-617/10, Åkerberg Fransson, punto 45. Da ultimo cfr,, in materia di direttiva Bolkestein, Cons. Stato, Ad. Plen., sent. Nn. 17-18/2021.
[14] “…un impulso al riconoscimento della risarcibilità del danno da illecito costituzionale del legislatore proviene ancora una volta dai giudici di Lussemburgo, perché è vero che la Corte di Giustizia si pronuncia sulle violazioni del diritto europeo, ma è altrettanto vero che, una volta introdotto il principio della responsabilità per comportamento commissivo od omissivo del legislatore, nulla impedirebbe un eventuale diffondersi della sua portata, fino cioè “ … a coinvolgere tutti gli illeciti commessi dal legislatore” (cfr. Francesco Soluri, Qualche spunto di “ragionevole” riflessione in tema di responsabilità del legislatore: the King can do non wrong?, in Federalismi.it – Rivista di diritto pubblico italiano, comparato, europeo, 20 ottobre 2021, 207).
[15] Si legge anzitutto nel “Preambolo” della Dichiarazione Universale Dei Diritti Umani delle Nazioni Unite: “Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo; Considerato che il disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità, e che l’avvento di un mondo in cui gli esseri umani godano della libertà di parola e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno è stato proclamato come la più alta aspirazione dell’uomo; Considerato che è indispensabile che i diritti umani siano protetti da norme giuridiche, se si vuole evitare che l’uomo sia costretto a ricorrere, come ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e l’oppressione… L’ASSEMBLEA GENERALE proclama la presente dichiarazione universale dei diritti umani come ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni, al fine che ogni individuo ed ogni organo della società, avendo costantemente presente questa Dichiarazione, si sforzi di promuovere, con l’insegnamento e l’educazione, il rispetto di questi diritti e di queste libertà e di garantirne, mediante misure progressive di carattere nazionale e internazionale, l’universale ed effettivo riconoscimento e rispetto tanto fra i popoli degli stessi Stati membri, quanto fra quelli dei territori sottoposti alla loro giurisdizione”.
[16] “La Sottocommissione, esaminate le possibili impostazioni sistematiche di una dichiarazione dei diritti dell’uomo; esclusa quella che si ispiri a una visione soltanto individualistica; esclusa quella che si ispiri a una visione totalitaria, la quale faccia risalire allo Stato l’attribuzione dei diritti dei singoli e delle comunità fondamentali; ritiene che la sola impostazione veramente conforme alle esigenze storiche, cui il nuovo statuto dell’Italia democratica deve soddisfare, è quella che: a) riconosca la precedenza sostanziale della persona umana (intesa nella completezza dei suoi valori e dei suoi bisogni, non solo materiali ma anche spirituali) rispetto allo Stato è la destinazione di questo a servizio di quella; b) riconosca a un tempo la necessaria socialità di tutte le persone, le quali sono destinate a completarsi e a perfezionarsi a vicenda mediante una reciproca solidarietà economica e spirituale: anzitutto in varie comunità intermedie, disposte secondo una naturale gradualità (comunità familiari, territoriali, professionali, religiose, ecc.), e quindi, per tutto ciò in cui quelle comunità non bastino, nello Stato; c) che per ciò affermi l’esistenza sia dei diritti fondamentali delle persone, sia dei diritti delle comunità anteriormente ad ogni concessione da parte dello Stato”.
[17] Voce Popolo, in Enciclopedia filosofica, vol. VI, Firenze, Le lettere, 1982, 699.
[18] Hans Kelsen, La democrazia, Bologna, Il Mulino, 1995 (1929), 45 ss.
[19] Ivi, 45.
[20] Cfr. il mio L’eguaglianza libertaria – Contraddizione, conciliazione, massimizzazione, Roma, Aracne, 2020, passim.
[21] Ivi, 57 ss.
[22] “Il diritto di ogni singola comunità religiosa alla libera, autonoma decisione e direzione dei propri affari fu alla base delle teorie della sovranità popolare, che essi (gli indipendenti puritani) hanno introdotto nella coscienza politica del mondo moderno”. Così Weingarten, cit. in George Jellinek, La dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, a cura di Damiano Nocilla, Milano, Giuffré, 2002 (1927), 78, n. 3.
[23] Ivi, 129.
[24] Sicché la “volontà generale” diviene l’emersione della comune libertà a un meta-livello di co-possibilità rispetto alle scelte individuali.
[25] Il culmine di questa idea è rappresentato dal II emendamento, per il quale il diritto di portare armi è individuale, ma funzionale alla costituzione della “milizia”.
[26] Cfr. AA.VV., Costituzionalisti inglesi, a cura di Nicola Matteucci, Bologna, Il Mulino, 1962, con scritti di Edward Coke, John Selden, John Milton, Algernon Sidney e altri. Si segnala in particolare, dal punto di vista che qui interessa, John Lilburne, La convenzione del popolo, 91 ss. (1648).
[27] “I diritti innati, intesi come attributi della personalità, non si concepivano dai giusnaturalisti astrattamente, ma come reali poteri fenomenici e pratici, che dovevano servire all’individuo a difesa della sua personalità di fronte allo Stato, alle associazioni, alla società” (Gioele Solari, Individualismo e diritto privato, Torino, Giappichelli, 1959, 11, evidenziazione nostra).
[28] Così Damiano Nocilla, Popolo (Diritto Costituzionale), in Enc. Dir., vol. XXXIV, 1985, 341 ss., 342.
[29] Cfr. Preambolo alla Costituzione degli Stati Uniti d’America: “Noi, il popolo degli Stati Uniti, al fine di perfezionare la nostra Unione, garantire la giustizia, assicurare la tranquillità all’interno, provvedere alla difesa comune, promuovere il benessere generale, salvaguardare per noi e per i nostri posteri il bene della libertà, poniamo in essere questa Costituzione quale ordinamento per gli Stati Uniti d’America”.
[30] Giuseppe Sorgi, Hobbes: difficoltà di un’interpretazione, in Nuovi studi politici, 1981, 104 ss.
[31] Tant’è che se la “sovranità popolare” viene intesa alla lettera, essa scavalca lo Stato e dà vita a forme di anarchia, con la dissoluzione stessa dello Stato-governo nella comunità (Damiano Nocilla, op. cit., 355).
[32] Nozione introdotta dall’anarchico americano Josiah Warren (1798-1874).
[33] Jürgen Habermas, Legittimazione tramite diritti umani, in Idem, L’inclusione dell’altro, cit., 216 ss.
[34] Con la conseguenza che “Lo Stato si muta semplicemente in un’associazione che concorre con altre associazioni; esso diventa una società accanto e in mezzo a numerose altre società, situate all’interno o al di fuori dello Stato. Questo è il ‘pluralismo’ di questa teoria dello Stato, la cui acutezza si esaurisce nella polemica contro le precedenti sopravvalutazioni dello Stato, contro la sia ‘superiorità’ e la sua ‘personalità’, contro il suo ‘monopolio’…” (Così Carl Schmitt, Il concetto di ‘politico’, in Idem, Le categorie del ‘politico’, cit., (testo del 1932), 127, con riferimento alla teoria del Laski).
[35] “Nessuno può essere costretto a far parte di un’associazione” (art. 20, c. 2). “Nulla nella presente Dichiarazione può essere interpretato nel senso di implicare un diritto di un qualsiasi Stato, gruppo o persona di esercitare un’attività o di compiere un atto mirante alla distruzione di alcuno dei diritti e delle libertà in essa enunciati” (art. 30, codificazione dell’Interpretatio contra stipulatorem nei confronti dello Stato).