Il capitalismo storico si fonda su una serie di elementi, che meritano di essere individuati e analizzati, sulla base di una critica, che in parte è sicuramente condotta in nome della critica a un modello inefficiente, ma che si nutra di gran lunga anche di una critica di carattere morale, includendosi peraltro in quest’ultima anche la critica all’inefficienza deliberata, in quanto artificiosa modalità della costituzione della credenza della scarsità delle risorse, sul quale poi lo Stato-capitalismo si è autoalimento, amministrando discrezionalmente e selettivamente il momento dell’abbondanza, dedicandosi così alla realizzazione di situazioni privilegiate:
a) Il primo elemento costitutivo del capitalismo storico è, con Sombart, il fatto di essere modellato sullo Stato, il che comporta però anche di essere raffigurato sul modello hobbeseano, improntato alla contesa tra gli individui per l’accaparramento di risorse scarse, e quindi si mostra da subito modello restrittivo e non ampliativo; modellandosi sullo Stato e adattandosi ad esso, il capitalismo emerge da subito come sistema politico, prima ancora che economico, nel senso che introietta l’uso della forza come proprio elemento costitutivo: il che ha immediate ricadute politiche, ivi compresa la dimestichezza nell’uso della forza pubblica contro gli esclusi dal sistema;
b) Il fatto di modellarsi attorno allo Stato come momento di garanzia e di privilegio determina poi tutta una serie di privilegi particolari, dal sistema delle concessioni monopolistiche, a tutto quell’insieme di provvidenze spesso definito “capitalismo di relazione” o “crony capitalism”, che, si badi, non va considerato, come alcuni credono, un momento degenerativo del sistema, ma un momento esattamente costitutivo essenziale di questo sistema capitalistico come storicamente inverato;
c) Tra queste provvidenze statuali spiccano, per la loro rilevanza economica, e ormai anche storica e storico-economica, i diritti di proprietà intellettuale, che conferiscono nientedimeno che monopoli, concessi dalla forza dello Stato, ai beni immateriali, il che rappresenta un controsenso, dato che il bene immateriale è liberamente attingibile per natura, dato che un bene immateriale non determina rivalità nel consumo; parliamo ovviamente di brevetti, dei quali le multinazionali fanno oggi collezione a migliaia, ma anche di marchi, rilevanti soprattutto a fini contabili per grandi società che esternalizzano qualsiasi attività materialmente produttiva, e quindi hanno uno stato patrimoniale, nel quale nei fatti l’unico asset davvero rilevante è il marchio, oltre che, per le aziende a forte rilevanza tecnologica, i brevetti;
d) Un ulteriore elemento rivelatorio della reale fisionomia del capitalismo storico è il suo fondarsi sulla concezione della terra (della Terra) come res nullius, quindi a disposizione per qualsiasi libera predazione dello stesso demanio naturale, come rilevò Marx trattando dell’”accumulazione originaria” e delle enclosures, attraverso le quali essa si manifestò; ciò si estende al demanio artificiale, che è capitale (secondo la mia concezione capitale comune), ma esso non viene preso in alcuna considerazione contabile, con il pretesto che un’antica tradizione ritiene il demanio, in quanto attributo della sovranità, extra commercium, il che è oggi ridicolo alla prova dei fatti, non potendosi certo considerare extra commercium le grandi autostrade e le grandi linee ferroviarie, a tacere del fatto che lo Studio Deloitte ha periziato in 77 miliardi di euro l’impatto economico del Colosseo e, quindi, il suo valore di stima. E infatti, il capitalismo storico, non attribuendo alcuna considerazione alle antiche dottrine, ha sempre sfruttato economicamente il demanio in ogni forma, rendendolo quindi intra commercium, nei fatti, ma a suo esclusivo beneficio, come avviene oggi con l’etere, che pure la giurisprudenza qualifica res communis omnium. Di fatto il demanio viene appropriato, ma l’atteggiamento del sistema è tale da indurrea considerare “economiche” solo le risorse effettivamente appropriate, alimentando artificiosamente l’idea della scarsità delle risorse, ma riservandosi al contempo ulteriori appropriazioni;
e) Il capitalismo storico, lungi dal valorizzare la libera concorrenza in ogni ambito, ha vissuto di una situazione monopolistica proprio con riferimento alla vicenda economica probabilmente più importante, in quanto preliminare a ogni attività produttiva, vale a dire l’amministrazione della moneta, giacché ha vissuto di moneta a corso legale, a emissione monopolistica e oligopolistica, ad amministrazione discrezionale di tipo politico, con sostanziale divieto di libero conio, con conseguente abuso dello strumento dei derivati finanziari e dei titoli tossici, così come esplosi con la crisi del 2008; allo stesso modo, il capitalismo storico ha convissuto con l’assurdo sistema del debito pubblico, quello per il quale lo Stato compra a interesse la moneta emessa dal sistema bancario, quindi un sistema circolare, che poi va a vantaggio dello stesso ambiente capitalistico, in un circuito che sembra fatto apposta per mantenere sotto ricatto permanente la gente comune, i meno abbienti, i poveri;
f) Essenziale per questo capitalismo monopolistico è quindi che esista in società una serie di nullatenenti, tali da essere costretti per vivere a lavorare “sotto padrone”, non disponendo dei fondi sufficienti per mettersi in proprio, magari in forma associata: vale a dire che, non è tanto che il capitalismo crei i poveri, è che l’ampia esistenza di poveri è un presupposto preliminare essenziale del capitalismo, quindi vanno creati fin dall’origine (con le enclosures), e poi ricorsivamente: l’argomento che viene portato è, di fatto, esplicito o implicito, che se non ci fossero i poveri nessuno lavorerebbe, tanto più nessuno si presterebbe ai lavori peggiori per scarno guadagno, dato che se si trattasse di benestanti, magari perché ricevono la loro quota di rendita sul capitale comune, non lavorerebbero: se tutti fossero benestanti, nessuno farebbe niente, sembra di capire, come se l’uomo non fosse comunque portato a intraprendere un’attività per la propria autorealizzazione. Vien da chiedersi allora perché nessuna censura morale o moralistica ricada sui benestanti attuali; il fatto è che occorre una quota di benestanti, ma anche una quota di nullatenenti che lavori per i benestanti;
g) Plusvalore schmittiano e signoraggio: Marx non comprende che quello che egli chiama “plusvalore” è solo un effetto, ossia l’effetto economico di uno squilibrio politico e di forze preliminare, sicché il plusvalore non è fatto economico, ma politico, e quindi è plusvalore della sovranità schmittiano, o, detto all’antica, signoraggio, conseguente alla posizione di supremazia di una parte sull’altra, che invece si trova in soggezione sociale in quanto nullatenente e privo di dotazione monetaria e di accesso libero al credito; tale assoggettamento sociale si riconferma poi nell’assoggettamento all’interno dell’impresa, che lo qualifica, non come socio attivo e quindi a propria volta come imprenditore, ma come subordinato: quindi non va detto che il rapporto di lavoro subordinato sia non giusto in sé, in astratto, ma in quanto in concreto funziona come riconferma di una subordinazione che trae origine dalla subordinazione sociale. Perché allora criticare chi vive di reddito di cittadinanza, ma dona dati personali di grande valore economico stando sul divano ai giganti del web e dello streaming, e non critica una serie di persone che vivono di denaro pubblico in mille altre forme, ed è inutile fare esempi: forse perché molti di questi “lavorano”? E che tipi di lavoro sarebbero, bullshit jobs di facciata per giustificare la retribuzione? Posti di potere camuffati da “lavoro”, per cui oltre a godere del potere, si usufruisce pure di una retribuzione per il proprio “lavoro” di kapò del sistema?
h) Non è finita, perché, stabilito che il capitalismo storico vive in simbiosi con lo Stato e si modella su di esso anche nei moduli organizzatori, soprattutto nella grande impresa ma non solo, si afferma in ciascuno di questi luoghi la mentalità burocratica al posto della mentalità imprenditoriale; occorre ricordare che, per Max Weber, la mentalità imprenditoriale è orientata al conseguimento del profitto, mentre la mentalità burocratica è orientata al rispetto delle regole. L’esperienza di ognuno di noi ci conferma che, spesso, l’attività della stessa impresa privata si dimostra orientata al rispetto delle regole, al punto di andare contro il suo stesso interesse a conseguire il profitto; ad esempio, certe policy aziendali non mirano al profitto, ma all’omaggio a determinati principi, razionali o irrazionali che siano; ad esempio, una banca che decide di non aprire il conto corrente a determinate categorie di associazioni va contro il proprio interesse d’impresa in omaggio al rispetto di determinate regole, che essa stessa si è data, e che poi rispetta anche quando sono controproducenti dal punto di vista imprenditoriale. Lo stesso vale per il piccolo commerciante, come il gelataio che stabilisce che in determinate coppette non possono andare più di due gusti, e giunge a leticare con il cliente per tale ragione, sta ragionando in ossequio a regole (alquanto stupide) e non in ossequio al profitto; o si pensi al venditore di salamini, che stabilisce la regola per la quale, se vuoi due salamini dello stesso tipo, poi ne devi acquistare un terzo di un altro tipo che dice lui, e se tu non sei d’accordo, e vuoi i due salamini che hai scelto, il commerciante rifiuta di venderti i due salamini in omaggio alla sua stessa stupida regola. Per non parlare del barista che tiene la musica a tutto volume, e che, se glielo fai notare, risponde che lui è casa sua e lui a casa sua fa quello che gli pare, e conclude la frase aumentando il volume: ecco, questo barista non sta cercando di fare profitti soddisfacendo il consumatore, ma sta pretendendo di implementare la regola che lui è il padrone di casa e non uno che si trova lì a lavorare a vantaggio del cliente e consumatore.
Questo capitalismo orientato alla regola e non al profitto è spesso tale, al livello della grande impresa, perché i suoi utili non derivano poi davvero dal mercato, ma dalla spesa pubblica o da qualche forma di accesso privilegiato alla moneta fiat, tal per cui soddisfare o no il consumatore diventa un problema secondario e di facciata, dato che tutto l’apparato rappresenta più che altro una messa in scena per mantenere quei rapporti politici e di potere, che consentono gli introiti, ben più che vendendo merci inutili al consumatore.
i) Il modello che precede, molto stupido nei contenuti pseudo-imprenditoriali, e sostanzialmente orientato al potere più che al mercato, è stato da me battezzato idiocrazia (da idion, privato in greco, come sottolinea Hannah Arendt), in quanto mezzo per la conquista del potere da parte di privati, più che non mezzo per l’acquisizione del consenso dei consumatori in un libero mercato. Ho spesso notato come questa idiocrazia, la quale mantiene rapporti particolarmente intensi con il mondo politico e, quindi, tecnicamente, con lo Stato, è particolarmente impegnata nello sfruttamento gratuito del demanio, dato che non c’è oggi grande impresa tecnologica che non viva di demanio, e alludo a internet e all’etere; il fare del demanio cosa propria, considerato che il demanio rappresenta simbolicamente la sovranità dello Stato, conferma, anche per tale via, che tale sistema idiocratico della grande impresa mira idealmente a farsi Stato direttamente, liberandosi dell’impaccio politico e burocratico, dato che suo autentico obiettivo, dichiarato o non dichiarato, è di sostituire la burocrazia di diritto pubblico con la burocrazia di diritto privato, ossia quella in sue mani, per l’evidente ragione che la burocrazia di diritto pubblico è pur sempre orientata al rispetto di regole impregnate di principi derivanti dal diritto costituzionale e amministrativo, che quindi prevedono un contraddittorio con l’utente-cittadino e un onere di motivazione, mentre la burocrazia di diritto privato si afferma libera da tali impacci, e ritiene di potere agire del tutto “liberamente”, ossia in assenza di alcun obbligo od onere nei confronti del cittadino-consumatore; poi tecnicamente non sarebbe così, stante l’immanenza dei principi consumeristici, ma il tentativo del grande capitale idiocratico è di lasciare cadere nel nulla i principi previsti dal codice del consumo e assimilabili, sempre in una logica di Drittwirkung, ossia di applicazione dei principi generali del diritto senza distinguere tra diritto pubblico e diritto privato, distinzione per molti versi divenuta ormai obsoleta.
l) Tutto quanto precede non va inteso come critica alla libertà di iniziativa economica, ma come critica a una concezione di “liberismo economico”, nel quale occorra uno dei seguenti requisiti: x) che l’imprenditore sia ricco di famiglia, e quindi dispone dei capitali necessari a intraprendere; y) che uno, se non è ricco di famiglia, si debba indebitare per avere la moneta che gli serve da parte di monopolisti della moneta, ossia di usurai.
m) Questo significa che i principi proprietaristi e capitalistici, ove portati alle loro più coerenti ed estreme conseguenze, finirebbero dialetticamente con il negare se stessi, e portare direttamente a un salto di sistema, alla luce dei loro stessi meccanismi endogeni, vale a dire senza ipotizzare interventi traumatici esterni del tipo “dittatura del proletariato” o simili, bastando a tale scopo la rigorosa applicazione degli stessi principi mercatisti; in particolare, l’elemento critico del capitalismo va individuato esattamente nel libero conio: il libero conio, espressione massima, estrema del capitalismo, in quanto giunge a liberalizzare il non liberalizzabile secondo la tradizione liberale classica e ordoliberale, ossia la moneta, vale a dire il caposaldo strutturale, insieme allo Stato sombartiano, del capitalismo storico, funziona esattamente da macchina della dialettica estintiva e di superamento del capitalismo stesso, stanti le sue straordinarie potenzialità egualitarie: se tutti hanno gli stessi diritti, come il liberale e il libertario vorrebbero, superata una certa soglia quei diritti cessano di essere solo formali per divenire sostanziali, e l’operaio diventa socio della fabbrica dove lavora, tanto per dirne una. Con il libero conio l’operaio esce dalla condizione di ricatto del proletario e può rifiutare il lavoro improntato a sfruttamento, e pretendere di essere fatto socio per prestare il proprio lavoro. Più in generale, in ogni caso, il libero conio presenta una forte valenza estetica di tipo comunista, nello stesso momento in cui esplica la propria estetica anarco-capitalista, visto che opera la tremenda e micidiale parola “tutti”: tutti possono emettere moneta a pari diritto, ma se ciò è anarco-capitalista, ciò è anche negazione del capitalismo storico, e rende l’anarco-capitalismo, se coerente, solo una variante del socialismo e del comunismo, giacché pone ognuno nella condizione di rifiutare le offerte di lavoro subordinato e pretendere condizioni solo di imprenditore, da solo o associato.