RIPUDIARE IL DEBITO PUBBLICO

Il primo problema che pone la questione del “debito pubblico” è l’accettazione passiva del concetto stesso di “debito pubblico”: l’unico modo per risolvere il problema del debito pubblico, in effetti, è liberarsi del concetto stesso di debito pubblico, ossia il concetto che possa esistere un pubblico indifferenziato, il quale sia debitore di qualcuno di imprecisato, il quale creditore sia però nella condizione di soggiogare quel pubblico indifferenziato, costretto a ogni sorta di sacrificio pur di soddisfare quel sacro creditore, come se questi non fosse altro che un investitore a proprio rischio e pericolo, per cui lo Stato dovrebbe, ad esempio imponendo maggiore tassazione ai cittadini, operare una traslazione di quel rischio dall’investitore ai cittadini stessi, i quali vengono così trasformati in fideiussori forzati dello Stato, che è l’unico debitore effettivo, non esistendo affatto, al contrario, un debitore “pubblico” indifferenziato, dato che lo Stato ha personalità giuridica autonoma rispetto ai cittadini, i quali quindi indebitamente vengono associati al debitore-Stato quali garanti suoi.
Attraverso il meccanismo detto del debito pubblico si viene quindi a determinare un poderoso trasferimento di ricchezze dalla comunità dei cittadini, che risulta oggetto delle attenzioni pelose dell’imposizione fiscale, alle mani dei creditori dello Stato, che sono i soggetti più possidenti, banche, società di speculazione finanziaria e in genere i ceti benestanti, di tal che si tratta di una traslazione di ricchezza dal basso verso l’alto.
Naturalmente, il presupposto logico e di fatto necessario perché ciò avvenga è che allo Stato sia sottratto il potere dell’emissione monetaria, di tal che lo Stato può ottenere la moneta di cui ha bisogno solo acquistandola sul mercato dietro il pagamento di un interesse. Logica vorrebbe che, in regime di sovranità popolare, la moneta emessa da una banca centrale istituzionale, che quindi andrebbe intesa, proudhonianamente, come “banca del popolo”, la moneta emessa fosse di proprietà del popolo stesso. Ciò che avviene, al contrario, è che, non venendo appunto “donata” la moneta emessa alla popolazione, o, in altri termini, non essendo assegnato al popolo, o a cittadini specifici, che non siano titolari di qualche privilegio di rendita garantita, il reddito di signoraggio, ma nascendo la moneta emessa come diritto di credito di chi la emette nei confronti di chi ne sia accipiens, l’emettitore di moneta è in grado con atto unilaterale di rendere tutti e ciascuno proprio debitore e, quindi, di auto-increditarsi ad libitum nei confronti della società. Come dire che, se la BCE, con il quantitative easing ha emesso x miliardi di euro nell’eurozona, questi miliardi di euro non sono diventati di titolarità dei cittadini dell’eurozona sotto una
qualche forma di reddito o rendita di cittadinanza, ma sono divenuti oggetto di un indebitamento della comunità nei confronti della BCE, la quale si è auto-increditata, con atto unilaterale “creativo” di imperio, nei confronti della comunità, per un ammontare pari alla moneta dalla stessa emessa, con la quale la BCE si è locupletata attraverso l’acquisto di una varietà di titoli, al quale vanno aggiunti peraltro gli interessi relativi alla moneta emessa e assegnata, non gratis, ma a debito (signoraggio secondario).
Marx seppe individuare tale fenomeno, e lo assegnò alla più ampia categoria dell’accumulazione originaria, salvo che tale species di accumulazione originaria non richiede nemmeno atti di apprensione forzosa di tipo fisico, come fu per le enclosures post-feudali, ma pretende solo l’immanenza di un potere sovrano di conio “legittimo”, il quale quindi si giova della forza dello Stato, rectius, della banca centrale, la quale si vede assegnata una quota del potere sovrano dello Stato, per produrre immediati e gratuiti effetti economici finanziari: “Sin dal loro sorgere le grandi banche, mascherate da pompose denominazioni nazionali, sono state solo società di speculatori privati che appoggiavano i governi e tramite i privilegi loro concessi potevano anticipare ad essi del denaro. Perciò l’accrescersi del debito pubblico trova una misura estremamente precisa nel progressivo salire delle azioni di queste banche, il cui pieno sviluppo data dalla fondazione della Banca d’Inghilterra (1694). La Banca d’Inghilterra cominciò col prestare il suo denaro al governo al tasso dell’8%; allo stesso tempo aveva avuto dal parlamento l’autorizzazione ad emettere moneta con questo stesso capitale, prestandolo nuovamente al pubblico sotto forma di banconote. Con queste essa poteva scontare gli effetti, fare anticipi su merci e acquistare metalli pregiati. Né passò molto che una tale moneta di credito fabbricata da essa stessa si trasformasse nella moneta con cui la Banca effettuava prestiti allo Stato e liquidava per conto dello Stato gli interessi del debito pubblico. Essa non solo dava con una mano per ricevere di più con l’altra, ma, proprio mentre riceveva, rimaneva creditrice della nazione fino all’ultimo centesimo sborsato” (Il capitale, libro I, cap. XXIV, par. 6).
In effetti, quasi tutti quelli che dicono di battersi contro il debito pubblico lo fanno in modo totalmente mainstream, vale a dire accettando il paradigma di base, non uscendo dalla cornice data, ossia trattando del debito pubblico come se fosse quasi un dato di natura, mentre si tratta di una questione di diritto positivo, o una questione che discende da scelte di diritto positivo in materia contabile, che poi sono scelte politiche: in particolare la scelta politica di impedire allo Stato di emettere moneta in prima persona, costringendolo ad approvvigionarsi di moneta altrove, ossia sul mercato, e quindi dalle banche e da altre istituzioni, oltre che da privati.
Visto quindi che il debito con la propria banca centrale non è autentico debito, ma partita di giro -eclatante il caso del Giappone, che ha un debito formidabile, ma si tratta in buona parte di debito solo nominale-, non esiste alcun obbligo diciamo “naturale” o “morale” a che tale
rapporto sia contabilizzato come passivo e debito, e non in altro modo, ad esempio come mera emanazione monetaria positiva da parte di uno Stato nel suo complesso; invece, ripeto, si parla del debito pubblico, ignorando che si tratta di concetto inesistente “in natura” e storicamente condizionato nel proprio affermarsi in quanto concetto, risalente all’epoca in cui un sovrano si indebitava coi vari banchieri Fugger per finanziare le proprie guerre; il problema si pone semmai quando lo Stato si indebita con moneta straniera, come è capitato all’Argentina, o con moneta che non controlla: ad esempio, noi siamo indebitati in euro, ossia in una moneta che controllano altri -la BCE-, e non noi, intesi come Repubblica Italiana.
Ritengo quindi l’approccio mainstream totalmente anti-scientifico, dato che un approccio scientifico si interrogherebbe anzitutto sulla cornice e sul paradigma, non dico negandoli, ma almeno mettendoli in discussione, e invece il paradigma è assunto come dato e si ragiona sempre al suo interno. Purtroppo, questo non capita solo agli pseudo-economisti a cui ad esempio fa oggi riferimento +Europa (Fornero, Cottarelli, De Romanis), ma anche quei libertarian, che considerano primaria la lotta al debito pubblico credendo di fare dell’antistatalismo, mentre, senza accorgersene, salvaguardando il paradigma (dato che anche loro ragionano di debito pubblico senza mettere in discussione il concetto, come fanno invece i presunti statalisti della Modern Money Theory), fanno un discorso statalista sotto vari profili: compreso il fatto che poi, all’atto pratico, come già notò, da liberista, Antonio Martino, la “lotta al debito pubblico” finisce solo con il comportare maggiore imposizione fiscale, in quanto, com’è noto, gli introiti fiscali rappresentano uno strumento di garanzia per i creditori dello Stato: il creditore dello Stato è ben contento se vengono aumentate le imposte, dato che esse sono esattamente ciò su cui egli fa affidamento per vedere ripagato il proprio credito; ed ecco allora che, in tal modo, si determina quella che ho ricordato essere la traslazione del rischio e il trasferimento di ricchezze dal basso verso l’alto della speculazione.
Occorre invece ammettere che indebitarsi, per uno Stato privo di “sovranità monetaria”, che è un modo enfatico per esprimere l’assenza di diritto a emettere moneta -il che è un assurdo, in un’epoca in cui chiunque può emettere moneta, ossia da quando esistono le criptovalute- è semplicemente il suo modo per emettere moneta: modo indiretto, dato che deve acquistare la moneta sul mercato, e non diretto, dato che non può emetterla direttamente, ma si tratta nella sostanza di questo: l’indebitamento è lo strumento di mediazione tra lo Stato e l’emissione monetaria di cui ha bisogno, come dire che l’emissione monetaria non è gratuita, ma costosa, ma sempre di emissione monetaria si tratta.
In questa chiave, ossia, se si fa propria questa chiave, emerge subito che privare uno Stato di sovranità monetaria per costringerlo all’indebitamento è una perfetta idiozia: sia per il fatto che
ciò implica all’atto pratico incremento di imposizione fiscale, quando teoricamente, uno Stato dotato di sovranità monetaria non avrebbe bisogno di tassare, se non in funzione della redistribuzione del reddito, ma non perché ne abbia effettivo bisogno, dato che può emettere direttamente tutta la moneta che gli necessita per le proprie attività; e quindi non ha alcun bisogno di indebitarsi, ma nemmeno di esprimere imposizione fiscale, con la conseguenza che viene a cadere lo stesso concetto di debito pubblico; al contrario, oggi, se uno Stato ha bisogno di 100, indebitandosi deve pagare gli interessi al sistema prevalentemente bancario, e quindi per disporre di 100 non potrà emettere 100, ma dovrà comprare 100 al prezzo di 100+x di interessi: e infatti, ormai abbiamo accumulato tanti di quegli interessi da pagare, a riprova dell’idiozia del sistema, quel sistema che l’economista mainstream avalla e non mette in discussione, che siamo stati molti anni in avanzo primario, ossia abbiamo pagato più tasse rispetto a quanto abbiamo ricevuto di teorici servizi, dato che paghiamo molte tasse, non per avere qualcosa in cambio, ma per pagare interessi al sistema delle banche e in genere del mercato circostante.
Ora, so bene che vien detto che lo Stato viene privato della sovranità monetaria per porre il famoso “vincolo esterno” alla classe politica, la quale, come insegnano liberali, liberisti, neo-liberali e neo-liberisti, sarebbe per definizione scialacquona. Senonché costoro non si chiedono se il rimedio non finisca con l’essere peggiore del male, o quanto meno se non si tratti di rimedio sproporzionato.
Accade infatti questo:
a) Se si ritiene che la classe politica spenda troppo rispetto a quanto dovrebbe, nessuno pensa a elaborare criteri da stato di diritto su come si potrebbe limitare la spesa, ancorandola a determinati parametri certi;
b) Eppure, né Bonino, né Cottarelli, propongono di sottrarre la sovranità poliziesca allo Stato perché la polizia eccede, o la sovranità giudiziaria allo Stato perché la magistratura è inaffidabile e inattendibile, o la sovranità carceraria allo Stato perché le carceri sono lager e così via: chissà perché, questo scrupolo, ossia di gettare il bambino con l’acqua sporca, vale solo per la sovranità monetaria;
c) Trasferire il potere, perché è un potere sovrano e autoritativo in senso lato, di emettere moneta, alla banca centrale indipendente come da lezione ordoliberale, o al sistema bancario, è antidemocratico, dato che il sistema democratico potrebbe controllare come la politica emette moneta, mentre gli è precluso farlo nei confronti della banca centrale e del sistema bancario; non si dica che così si è affidata la moneta al mercato, dato che la BCE non è nel mercato e il sistema bancario è oligopolistico e chiuso;
d) Quindi siamo all’assurdo che il sistema bancario tiene in pugno la politica, quando in democrazia dovrebbe essere la politica, attraverso le sue istituzioni democratiche, a tenere sotto controllo il sistema bancario;
e) Si ottiene anche l’ulteriore assurdo esito di trasferire la titolarità, la proprietà della moneta, dal sistema democratico (Auriti diceva: “il popolo”) alla banca centrale. Ma se io istituisco un’autorità indipendente dalla politica sui monumenti, le attribuisco il potere tecnico di gestire i monumenti, non le attribuisco la proprietà dei monumenti. Se istituisco un’autorità indipendente in materia urbanistica, non le attribuisco la proprietà di tutto il suolo, ma solo la sua gestione; quindi l’intero meccanismo ha solo la finalità di attribuire il monopolio sia della gestione, sia della titolarità della moneta ai grandi banchieri.
Il che non significa che la questione del debito pubblico vada sottovalutata; al contrario, proprio per le ragioni appena indicate, esso sarebbe in buona parte da ripudiare in quanto odioso e detestabile, e ciò per almeno tre ordini di ragioni: a) in quanto frutto, per lo Stato, di un iniquo divieto, quello di emettere moneta, e quindi frutto di una costrizione a indebitarsi in perpetuo; b) perché, attraverso l’incremento dell’imposizione fiscale e il taglio dei servizi, l’indebitamento dello Stato viene fatto ricadere su cittadini incolpevoli, per cui chi viceversa si incredita nei confronti dello Stato, indebitandolo, determina esternalità negative, in danno di una grande parte di persone del tutto estranee al rapporto debito-credito tra lo Stato e una serie di soggetti, dato che effetto pratico e iniquo della questione è che ne vengono coinvolti indivisibilmente tutti i cittadini, ivi compresi quelli appunto non coinvolti nella relazione, e persino coloro i quali non ricavano alcun beneficio dalla spesa pubblica, e che però continuano a pagare le imposte, in modo tale che il loro saldo dare/avere risulta sempre negativo; c) infine perché, come diceva Thomas Jefferson, i debiti della generazione precedente non vincolano mai la generazione successiva, sicché si impone periodicamente una qualche forma di biblico giubileo, che interrompa la perversa spirale, per la quale il debito può, alla lunga, solo aumentare, a meno appunto che di tanto in tanto non lo si cancelli d’imperio.
Dal punto di vista teorico, peraltro, il problema si pone meno di quanto non si creda, dato che il debito, più che non “alto” o “basso” deve risultare “sostenibile”, ossia occorre che si sia in grado stabilmente di pagare gli interessi, più che non di restituire il capitale, dato che tale restituzione è comunque rifinanziata da nuove emissioni di titoli; noto infatti che l’istituto stesso del debito pubblico, più che non un effettivo problema dal punto di vista economico, funziona come istituto prettamente politico, ossia null’altro che come strumento di ricatto: da parte dei mercati finanziari, da parte delle agenzie di rating, da parte dell’Unione Europea.
E infatti, la UE, dopo avere autorizzato il grande debito per quello che inizialmente si chiamava
Recovery Fund, poi ha mandato avanti la Lagarde e i vari Rutte a dire che l’Italia è troppo indebitata, quando una bella quota di debito ce l’hanno imposto loro negli ultimi due anni, al fine di conseguire obiettivi che stanno cari alla stessa UE.
E una volta stabilito, come si è sopra precisato, che “debito pubblico” significa solo che si è emessa moneta, sia pure indirettamente, ossia acquistandola sul mercato finanziario in cambio di un interesse, contabilizzare tale moneta al passivo, e non all’attivo, o magari anche all’attivo, è una scelta di diritto positivo contabile, ossia una scelta politica, che non merita di assurgere a totem e a feticcio, trattandosi di un criterio come un altro, che può essere modificato in ogni momento; fatto salvo che è proprio la partecipazione alla UE a impedirci scelte contabili autonome e sovrane.
Se quindi lo Stato prende a debito l’importo, poniamo, di 1 miliardo di euro, contabilizza di essere titolare di un debito di 1 miliardo di euro; però, se c’è un debito di 1 miliardo, ciò significa anche che qualcuno ha dato allo Stato l’importo di 1 miliardo di euro, quindi, insieme al debito, lo Stato ha anche l’importo di 1 miliardo, lo ha oggi, lo ha nell’attualità, lo ha effettivamente, mentre il debito è proiettato verso il futuro: quindi più che al debito dovremmo prestare attenzione al fatto materiale e concreto di disporre dell’importo di 1 miliardo: criterio con il quale il Giappone, che ha il debito pubblico più alto del mondo, è anche una delle società tecnologicamente più avanzate, proprio perché appunta l’attenzione sul miliardo posseduto, più che non sull’importo che in un futuro più o meno imprecisato si dovrà restituire: imprecisato perché il debito non viene mai ripagato, di fatto, se è sostenibile, dato che a ogni scadenza verrà rinnovato, e quindi procrastinata sine die la restituzione: non al singolo, ma alla massa dei “creditori”; è vero che, in tal modo, quello a cui si dà vita è uno Schema Ponzi; tuttavia, finché v’è fiducia che Ponzi, ossia lo Stato, pagherà gli interessi, lo schema prosegue.
Se poi i creditori -e questo è un punto decisivo- non verranno, a un certo punto, più soddisfatti, il problema è interamente loro, dato che gli investitori hanno agito a proprio rischio e pericolo, si sono cioè assunti consapevolmente il rischio di perdere i propri soldi, come avviene in qualsiasi investimento, posto che tutti sanno che, maggiore è il rischio, maggiore è il premio in interessi, e tale rischio è valutato dalle agenzie di rating, ed è a queste che l’investitore è invitato a fare riferimento: salvo che le agenzie di rating non affermino il falso o siano in errore, come nel caso dei derivati subprime del 2008; ma allora il problema non è il “debito pubblico”, che, per molti soggetti economici, è solo uno strumento finanziario sul quale lucrare, ma il sistema finanziario nel suo complesso in quanto tutto sommato inaffidabile, tanto quando
riguarda gli Stati, quanto quando riguarda le imprese capitalistiche e bancarie.
Non solo: va aggiunto un ulteriore elemento di riflessione, che contribuisce a ribaltare, come mi sto sforzando di fare, il paradigma narrativo dominante -di comodo- in materia di debito pubblico; vale a dire che, una volta ricondotto l’acquisto di titoli di Stato a ordinario strumento di investimento, e anche di speculazione, di carattere strettamente individuale e personale -ivi comprese persone giuridiche, quali agenzie finanziarie operanti nel mercato-, con conseguente assunzione di ogni rischio connesso, non si comprende perché debbano essere coinvolti i cittadini qualunque, estranei al rapporto di debito/credito, come soggetto cioè poi costretto a subire incrementi di tassazione o “sacrifici”, conseguenti ad allarmismo diffuso, se non sulla base dello slogan “lo Stato siamo noi”, che è puramente ideologico e tecnicamente del tutto campato per aria: lo Stato non siamo per niente affatto “noi”, dato che lo Stato-persona è un soggetto con personalità giuridica autonoma, e io potrò anche essere cittadino di quello Stato, inteso come Stato-comunità, ma non mai compartecipe delle vicende economico-finanziarie soggettive dello Stato-persona, così come il socio di una società di capitali, dotata quindi di personalità giuridica, non fallisce in caso di fallimento della società: né può essere toccato il demanio a garanzia di siffatti investitori, dato che il demanio appartiene, per principio di diritto costituzionale, al “popolo sovrano”, quindi allo Stato-comunità e non allo Stato-persona.
In altri termini, l’ipotesi dell’insolvenza dello Stato andrebbe meno drammatizzata di quanto oggi non sia, al di là della sua improbabilità in un paese come il nostro, riconducendola a un’ipotesi tra mille di assunzione del rischio da parte dell’investitore: l’importante è che questi venga sempre ben informato sullo stato delle cose. Ma il punto è che non ha alcun senso l’opinione diffusa, per la quale lo Stato dovrebbe andare in default, se non in grado di onorare i propri debiti, così come una banca non va in default, per il solo fatto che i suoi clienti hanno sbagliato investimenti.
In ogni caso, quel miliardo di euro incamerato a debito, di cui si diceva prima, potrà servire a costruire una strada, un ponte, una ferrovia, uno stadio: senonché, sempre per ragioni di arretratezza contabile, strada, ponte, ferrovia e stadio, poi, non risulteranno nello stato patrimoniale dello Stato e degli altri enti pubblici, in modo tale che sembra che tu abbia solo il miliardo di debito, mentre quello concretamente posseduto parrebbe essersi volatilizzate dal punto di vista contabile: e invece ha fruttato strada, ponte, ferrovia e stadio: ne deriva che il bilancio dello Stato è falso, dato che non ricomprende gli asset pubblici nello stato patrimoniale, come invece avviene per le società private in base all’art. 2424 del codice civile.
Non solo: lo stato patrimoniale del bilancio dello Stato, non solo non rappresenta la situazione reale con riferimento alle opere pubbliche che vengono sistematicamente realizzate,
ma, in occultamento della ricchezza reale dei cittadini italiani, nemmeno ricomprende il poderoso demanio esistente, del quale noi cittadini siamo titolari ai sensi dell’art. 822 del codice civile; e al demanio andrebbe aggiunto il patrimonio indisponibile e disponibile: ad esempio, lo stadio di San Siro non è demanio, è patrimonio, e tuttavia il suo valore potrebbe essere estremamente elevato se periziato correttamente, ossia tenendo conto non solo dei fili d’erba e dei muri, ma della sua attitudine a produrre profitti sotto il profilo diritti televisivi, sponsorizzazione e simili espressioni del capitalismo, che circolano attorno all’industria calcio: in altri termini, uno stadio è capitale fisso delle imprese “società di calcio”, è capitale fisso di proprietà dei cittadini, ma i cittadini non ne ricavano nulla, perché le loro ricchezze -dal Colosseo alla Torre di Pisa, dagli Uffizi alla Valle dei Templi, nonché i relativi marchi- sono loro occultate.
Perché sono loro occultate? La risposta è cristallina: perché se i cittadini italiani scoprissero di essere ricchi in demanio, ossia in capitale comune, naturale e artificiale, avrebbero di che rispondere alle Lagarde e ai Rutte, Lagarde e soci, che lucrano sul fatto di vendere l’Italia come uno sfasciume pendulo sul Mediterraneo, per riesumare la formula di Giustino Fortunato, popolata da parassiti, i quali, in assenza di assistenza, farebbero la fame; laddove al contrario potrebbero costruire prodotti finanziari attorno a Colosseo, Torre di Pisa, eccetera, per distribuirne le royalties ai cittadini. Il marchio del Colosseo, come è noto, è stato invece depredato da Mr. Tod’s Della Valle, mentre lo studio Deloitte, nel frattempo, ne ha effettuato una stima -dimostrando la fondatezza di quanto da molti anni sostengo, ossia sul carattere di capitale produttivo del demanio- pari a circa 77 miliardi di euro, considerato solo l’impatto economico del bene, eventualmente le sinergie connesse, ma non anche il valore storico-artistico suo intrinseco.
Quell’importo, assommato ai valori di stima dell’intero novero dei beni demaniali italiani, davvero ci consentirebbero di rinviare al mittente le invettive dei Rutte e delle Lagarde e a chi tiene loro bordone nella nostra politica (i Marattin, i Cottarelli e le Bonino) e nel nostro giornalismo; costoro in effetti pare ignorino che, in un bilancio, l’attivo compensa il passivo, e tutti questi beni rappresentano un attivo di valore fenomenale, forse incommensurabile, anche se avvicinabile per approssimazioni: e se il Colosseo vale 77 miliardi, quanto valgono la Torre di Pisa, gli Uffizi, la Valle dei Templi, laghi di grande funzionalità economica come quello di Como, di Garda e il Maggiore? E le spiagge, che, in base a quanto si propone, verranno assegnate in concessione all’asta, in presunta applicazione della direttiva Bolkestein (che invece deve ritenersi estranea alla fattispecie concessioni demaniali), senza nemmeno conoscere il valore di stima di quanto viene messo all’asta? Non è accettabile che Forte dei Marmi, Porto Cervo, Capalbio, San Vito lo Capo, Taormina, Riccione, Bellaria e Miramare siano assegnate in
concessione per quattro soldi a multinazionali, le quali certamente si costituiranno in cartello in vista di una spartizione, proprio perché codeste aste saranno indette senza adeguato prezzo-base, e forse senza prezzo-base del tutto, ossia affidandosi al presunto “migliore offerente” cartellizzato e spartitore di lotti
Tutta questa “ciccia” materiale, tangibile e straordinaria, vale certamente di più dei numeretti dei Cottarelli e degli altri: in altre parole, il debito pubblico non esiste (anche per le ragioni dette in precedenza), e però per decenni ci hanno rovinato l’esistenza in suo nome, per non parlare di come Draghi e i tedeschi, in particolare le banche, trattarono i greci.
Ora, se si considera che, nel capitalismo moderno, il bene immateriale conta più di quello materiale, il fatto che si sia accettato, come nel caso del Colosseo, che un bene demaniale di straordinaria importanza, anche economica, possa essere dotato di un marchio commerciale, apre eccezionali prospettive con riferimento alla capacità di questi beni di produrre utili; ma deve trattarsi di utili a vantaggio dei cittadini, dato che questi beni sono dei cittadini; e allora non ha senso alcuno che sia Mr. Tod’s a giovarsene interamente, e non, semmai, a conseguire solo un aggio per l’attività svolta, ossia un’attività imprenditoriale, volta al conseguimento di guadagni, ad esempio in royalties, non per sé, ma per i cittadini tutti.
Inoltre, il mondo del calcio ci ha insegnato come contabilizzare possa significare creare denaro -si veda la vicenda delle plusvalenze-: nel nostro caso, nel senso che contabilizzando in bilancio i grandi beni demaniali, oltre che il patrimonio in opere pubbliche, si fanno emergere grandi ricchezze attualmente occulte, che sono ricchezze comuni, delle quali i cittadini sono all’oscuro, sì da poter divenire facile preda delle truffaldine politiche di austerity.
E fare emergere quelle ricchezze dalla clandestinità significa esattamente creare, non dal nulla, ma con corposo sottostante, tutto il denaro necessario a compensare il presunto “debito pubblico”: nulla di scandaloso, la moneta è nata proprio così, presso gli assiro-babilonesi, i quali crearono la prima moneta precisamente contabilizzando nei Templi gli apporti in grano, riso e altri prodotti, che venivano conferiti dai singoli agricoltori (nel 2016 scrissi un articolo intitolato “Una contabilizzazione ci salverà”, e oggi confermo quell’ottimismo della ragione).