Il processo di integrazione tra gli Stati dell’Europa ha inizio nel 1951, con la costituzione della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, avente la funzione di risolvere il maggior motivo di attrito presente sul suolo europeo occidentale: il carbone tedesco. Successivamente, gli Stati aderenti a questo primo accordo di natura economica, ovvero, in primis, Francia e Germania, cui si unirono l’Italia e i paesi del Benelux, tentarono di porre in essere il primo “passo politico”, con l’istituzione della CED, Comunità Europea di Difesa, ma, per l’opposizione della Francia, il progetto naufragò prima di cominciare.
Da questo momento in poi, inizia un processo teso a superare i limiti evidenziati dal cosiddetto “metodo federalista”, di matrice spinelliana, con l’adozione di un nuovo metodo, che prenderà il nome di “funzionalista”, ideazione del francese Jean Monnet. Con tale metodo ci si proponeva (e ci si propone tuttora) di procedere all’integrazione tramite i “passi lenti dell’economia”, in modo da far sì che gli Stati europei che, di volta in volta, aderiscano al progetto unionista europeo, si ritrovino in una situazione di sempre maggior condivisione dei fondamentali economici tale da richiedere la formalizzazione di una unione de facto, senza che “nemmeno se ne accorgano”.
La prima tappa del processo di unione furono i trattati di Roma del 1957, che aggiunsero alla CECA, già esistente, anche altre due comunità tra gli allora sei aderenti: la CEE (Comunità Economica Europea) e l’EURATOM (Comunità Europea dell’Energia Atomica), con l’istituzione dei necessari organi di governo e consultivi.
Da quel momento, la storia dell’integrazione europea è un susseguirsi di nuovi ed ulteriori passi sia in direzione dell’integrazione economica che dell’allargamento a nuovi Stati delle istituzioni esistenti, finché si giungerà, alla fine degli anni ’90, all’integrazione monetaria, vero punto di svolta nell’ambito della costruzione europea.
Il processo di unificazione economica e monetaria trova i suoi prodromi negli anni ’70, con lo sfaldamento del sistema monetario ideato nel dopoguerra a Bretton Woods. Nel 1970 il Consiglio Europeo incarica un comitato di esperti, presieduto dal lussemburghese Pierre Werner, di formulare proposte per la realizzazione dell’Unione economica e monetaria. Tale rapporto viene sottoposto a varie critiche da parte di economisti dell’epoca (famoso il contributo di Nicholas Kaldor). Il primo effettivo accordo tra paesi dell’allora CEE risale al 1972, con il Serpente Monetario Europeo, che prevedeva il mantenimento di un margine di fluttuazione predeterminato e ridotto tra le valute dei paesi aderenti e tra queste e il dollaro (ricalcando, in parte, il sistema in vigore sino ad un anno prima). Purtroppo, le crisi petrolifere di quegli anni e le eccessive oscillazioni dei prezzi da esse determinate portarono rapidamente al naufragio dell’accordo.
Un secondo tentativo, questa volta più duraturo, fu il Sistema Monetario Europeo, entrato in vigore nel 1979 e durato, con alterne fortune, sino al 31 dicembre 1998, data in cui venne stabilito che, da lì a tre anni, l’Euro avrebbe sostituito le monete nazionali dei paesi aderenti alla “zona Euro”.
Tale sistema (il cui acronimo era SME) prevedeva l’istituzione di un’unità di conto comune (l’ECU – European Currency Unit) determinata in rapporto al valore medio dei cambi delle valute dei paesi aderenti per le quali ultime veniva stabilita una parità di cambio con detta unità di conto, parità intorno alla quale era consentita un’oscillazione del +/- 2,25% (del +/- 6% per Italia, Gran Bretagna, Spagna e Portogallo).
Nel 1992 i dodici allora paesi membri della CEE firmarono il Trattato sull’Unione Europea (TUE) meglio noto come Trattato di Maastricht (dal luogo in cui venne sottoscritto) che, a tutt’oggi, costituisce il principale documento normativo sul quale si basa la governance dell’Unione Economica e Monetaria, a seguito delle modifiche apportate nel 2007 dal Trattato di Lisbona che ha, altresì, introdotto il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE).
A livello istituzionale vengono previsti vari organismi, di cui il più importante, ai nostri fini, è la Banca Centrale Europea (BCE). La BCE viene prevista tra le istituzioni dell’Unione all’articolo 13 del TUE e, ai sensi del suo Statuto, assolve ai seguenti compiti:
- definire ed attuare la politica monetaria per l’area dell’Euro;
- svolgere le operazioni sui cambi;
- detenere e gestire le riserve ufficiali dei paesi dell’area dell’Euro;
- promuovere il regolare funzionamento dei sistemi di pagamento.
A differenza delle Banche Centrali della maggior parte degli altri Stati del mondo (ed in particolare a differenza della Federal Reserve degli Stati Uniti), ai sensi dell’art. 127 del TFUE, la BCE ha come obiettivo prioritario e prevalente rispetto agli altri quello della stabilità dei prezzi ed in particolare un tasso di inflazione di medio periodo inferiore ma prossimo al 2%. Tutti gli altri obiettivi di politica economica, ed in particolare la piena occupazione e gli altri enunciati nell’articolo 3 del TUE sono subordinati all’obiettivo principale e possono essere perseguiti solo qualora non lo compromettano.
Quanto alla politica fiscale, la stessa è rimasta, essenzialmente per la sua totalità, appannaggio degli Stati membri, ma tale prerogativa è fortemente limitata dai parametri di cui l’UE si è dotata nel corso del tempo e la cui applicazione è stata via via rafforzata e resa sempre più rigida con successive modifiche ed integrazioni ai trattati.
Il primo intervento limitativo delle competenze di politica fiscale degli Stati membri dell’UE risale, come noto, al 1992, con i famosi parametri di Maastricht.
Nel 1997 vengono stabiliti definitivamente i cambi reciproci delle allora vigenti monete europee e, nel 2002, entra definitivamente in vigore la moneta unica europea (Euro) che si configura, pertanto, come un caso particolare di regime di cambi fissi, in cui, pur in assenza di un legame quantomeno federale tra i vari Stati aderenti all’accordo di cambio, le autorità monetarie di detti Stati sono impossibilitate ad effettuare svalutazioni o rivalutazioni, né è possibile che si verifichi, sempre tra i vari Stati aderenti all’accordo, alcun apprezzamento o deprezzamento della valuta. In altre parole, gli Stati hanno perduto la possibilità di esercitare una politica monetaria che si adatti alle condizioni specifiche del singolo paese.
Tutta questa metodologia si è rivelata, alla prova dei fatti, come un “mettere il carro davanti a buoi”, come si suol dire, che, lungi dal produrre gli effetti desiderati, sta, di fatto, minando alle basi lo stesso concetto di unità europea, per come è stato concepito.
Infatti, è evidente come la governance dell’economia all’interno dell’Unione Europea risenta di una “zoppìa” (espressione di Carlo Azeglio Ciampi) che nasce, in buona sostanza, dal difetto di fondo di aver attuato con anticipo l’unione economica e monetaria rispetto all’unione politica.
Le basi dell’unificazione europea non sono andate al di là di mere dichiarazioni d’intenti e, ad oggi, l’Unione Europea non mostra alcuna tendenza a completare l’unificazione in senso politico, né su basi prettamente giuridiche né, tantomeno, a livello di opinione pubblica che, al contrario, sente molto lontane e del tutto disinteressate alle proprie sorti le istituzioni europee, minando, in tal modo, la stessa “coscienza europea”, ammesso che questa sia mai esistita. Il presunto “federalismo europeo”, lungi dal configurarsi come un federalismo di tipo libertario, con un pieno coinvolgimento dei popoli che siano la base di un vero e proprio processo costituente, è sempre più percepito come una costruzione verticistica e priva di una sua anima, diretta da istituzioni inefficienti e viste come distanti e autoritarie. Il Parlamento Europeo è, probabilmente, l’unico esempio di organo legislativo senza iniziativa (in senso giuridico-costituzionale) al mondo. Il Consiglio Europeo, che rappresenta, sul tipo del Senato americano, gli Stati membri è costantemente bloccato dal metodo decisionale unanimistico (o a maggioranza qualificata). La Commissione appare sempre più come un organo esclusivamente tecnocratico tutto dedito ad imporre con la forza vincoli e regole farraginose nella loro applicazione e del tutto incomprensibili per un’opinione pubblica disorientata e sfiduciata.
A livello di governo dell’economia, i due strumenti di politica economica previsti dalla dottrina (la politica monetaria e la politica fiscale) sono entrambi ampiamente svuotati di efficacia nel loro, rispettivo, campo di azione. Infatti:
- la politica monetaria è stata del tutto tolta dalle competenze degli Stati membri con l’istituzione della moneta unica, ma è esercitata dalla BCE (che ha acquisito in via esclusiva tale competenza) solamente in una direzione, quella della stabilità dei prezzi, ignorando totalmente l’obiettivo dell’occupazione;
- la politica fiscale, invece, è rimasta, pressoché per la sua totalità, nella competenza degli Stati membri (e già questo, in presenza di una ricerca dell’unificazione politica, costituisce una grave anomalia) ma, di fatto, gli Stati, specialmente quelli che già al momento dell’unificazione economica e monetaria, avevano gravi difficoltà di finanza pubblica, esercitano questa competenza in modo estremamente limitato, chiusi come sono da vincoli stringenti.
Quanto sopra, a discapito del benessere dei vari paesi aderenti, che mostrano ancora profonde diversità strutturale tra le loro economie. E’ dal 1961 che, con Robert Mundell, conosciamo il concetto di “Area Valutaria Ottimale” (AVO), definita come un’area in cui le varie parti della stessa hanno delle economie fortemente integrate, molto simili tra loro sotto ogni aspetto, e nella quale è difficile che si verifichino i cosiddetti shock asimmetrici, o comunque le autorità centrali di politica economica dispongono degli strumenti per affrontarli, cosa impossibile nell’attuale quadro giuridico unionale.
Senza dei meccanismi, a livello europeo, che consentano ai vari Stati membri di “bypassare” il vincolo esterno costituito dalla necessità di collocare sui mercati finanziari i propri titoli di debito ben difficilmente gli Stati oggi più in difficoltà, e l’Italia in particolare, potranno pensare di porre in essere, nel breve periodo, politiche economiche orientate alla crescita.
Occorre, probabilmente, la presa d’atto che i tempi non sono maturi affinché i popoli europei adottino soluzioni che appaiono ottimali, come potrebbero (e dovrebbero) essere un parlamento europeo che abbia iniziativa legislativa ed il potere di imporre tasse a livello europeo, un bilancio unico europeo che consenta di effettuare trasferimenti da paesi in surplus a paesi in deficit. Il federalismo europeo non potrà nascere per mezzo di un’imposizione “dall’alto”, da parte di presunti “illuminati” che guidino il popolo ignorante verso le “magnifiche sorti e progressive” che il popolo stesso, secondo tali “illuminati”, non è in grado di comprendere e sul quale, pertanto, è bene che non si esprima.
Se federalismo dovrà essere, potrà esserlo solo “dal basso”, con popoli pienamente consapevoli e liberi di scegliere. Diversamente, sarà bene iniziare a proporre ed attuare nuovi modi di pacifica convivenza tra i popoli dell’Europa, sottoponendo a legittima e costruttiva critica ciò che non va nella costruzione europea odierna, con la volontà di mettervi mano al fine di salvaguardare il benessere dei popoli ed evitare l’instaurazione di un pericoloso regime subdolamente autoritario.
In effetti, il cosiddetto “federalismo europeo” non somiglia per niente a quello che la tradizione libertaria, alla quale ci rifacciamo, considera per autentico e genuino “federalismo”, vale a dire costituire una serie di patti, che partono dall’individuo, per passare da comunità locali o comunque ristrette, e poi via via risalire, trattenendo però sempre la maggior parte dei poteri alla base della piramide, e non delegandone sempre di più al vertice, come invece avviene con il cosiddetto “federalismo europeo”. Questa tradizione, alla quale ci rifacciamo, è infatti quella di Thomas Jefferson e di anarchici come Proudhon e Bakunin, ma essa è totalmente ignorata nella tradizione del “federalismo europeo”.